Psicoterapia e fasi di passaggio

L’immaginario della terapia è generalmente piuttosto distorto. Di solito si giunge in terapia nelle fasi di passaggio, quelle da un’era di vita a un’altra. Si giunge in terapia magari tra l’adolescenza e la prima età adulta, oppure alla nascita del primo figlio o, ancora, alla sopraggiunta età della pensione.

Si giunge in terapia quando una serie di immaginari marciscono e altri ancora non germogliano. Dunque come scegliere il terapeuta? Proveremo qui a dirvi cosa non debba assolutamente mancare e a cosa si debba definitivamente rinunciare.

Ciò che è più infero in te è fonte di Grazia (Jung,”Il Libro Rosso”)

Il passaggio di fase, cosi lo chiamerei per brevità, è assimilabile al passaggio al mondo infero. E con infero ci riferiamo a tutta quella porzione psichica generalmente evitata. Ci riferiamo a quell’universo emotivo che sfugge al politically correct. Ci riferiamo a quei comportamenti deprecabili che, di quando in quando, ci possiedono e, allora, aggrediamo, picchiamo, sporchiamo, rubiamo, orgiasticamente facciamo sesso esplorando pionieristicamente i nostri tabù, o, più semplicemente, ci giriamo dall’altra parte. E già, la passività, anch’essa è un comportamento attivo.

Nelle fasi di passaggio contattiamo l’infero inferno in noi e Caronte in persona, il dantesco traghettatore di anime,  ci traghetta verso questo mondo, e noi soffriamo. Per questo andiamo in terapia. Nella sofferenza nasce l’idea salvifica della terapia e, di conseguenza, l’immagine dello psicoterapeuta. Ma molta terapia è stata mitizzata come James Hillman, ci ricorda a più riprese.

Mentre soffro cerco, paziente, qualcuno che comprenda la mia sofferenza, qualcuno che accolga questa sofferenza, qualcuno che lenisca il dolore delle ferite. Una grande madre amorevole che ci prenda sulle ginocchia e con la sola imposizione delle mani, pacifichi il nostro pathos.

E la Psicologia ha cercato di rispondere ai suoi clienti. Ha cercato di farsi rifugio per gli infreddoliti, di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. Hillman ce lo racconta in “Cent’anni di psicoanalisi e il mondo va sempre peggio”, ci racconta come il tentativo della psicologia di farsi asilo ha prodotto un popolo di bambini sofferenti e onnipotenti, ossia i pazienti.

Chi sono i pazienti?

Un paziente è tale solo se non riceve il prodotto che chiede.

Mi spiego.

Se andiamo in un negozio o da un libero professionista e chiediamo qualcosa siamo clienti se quel qualcosa ci viene dato dietro lauto pagamento. Mentre siamo pazienti se non ci viene dato. Provate a pensare, infatti, se dal panettiere ci dessero del pane di altro tipo da quello richiesto e magari raffermo… ci vorrebbe molta pazienza. Quindi in terapia chiediamo di lenire le nostre sofferenze e la psicologia ha provato a farsi lenitivo trattandoci da clienti. Poi la psicoterapia ha compreso che non doveva vendere quel balsamo. Ha iniziato a aiutare i clienti a stare nelle sofferenze e ad accoglierle, e così li ha resi pazienti. Solo chi si fa paziente capisce che il terapeuta non salva da Caronte ma è lui stesso Caronte.

Le parole amate della terapia

Una buona terapia già nella fase iniziale aiuta il paziente a mettere a fuoco parole come empatiasimpatiacompassione. Tre parole che hanno a che fare con il Pathos, con la sofferenza. Ma questa messa a fuoco ha come scopo  quello  di preparare il paziente a rinunciarvi. Ossia a rinunciare all’idea che la psicoterapia abbia tra suoi obiettivi quello di sollevarci dalle sofferenze. Proviamo infatti a vedere a cosa si riferiscono queste parole che la Psicologia ha impiegato diffusamente nella sua campagna promozionale

L’empatia è un entrare dentro la sofferenza dell’altro e già il Dott. Michele Mezzanotte ce ne ha sottolineato gli aspetti terapeutici e contro-terapeutici in questo spazio virtuale (CLICCA QUI per leggere “Il falso mito dell’empatia. Quando mettersi nei panni dell’altro impedisce la relazione)

Simpatia significa provare la medesima sofferenza.

Compassione rinvia al soffrire con l’altro.

Indubbiamente tre doti necessarie anche se tutti conosciamo i neuroni specchio (quei neuroni che si attivano quando osserviamo un’altra persona provare un’emozione o avere una condotta e ci fanno percepire le sue sensazioni ed emozioni) e sappiamo che non si tratta di doti rare ma presenti in ognuno. Giacomo Rizzolatti ci espone chiaramente le scoperte fatte nell’università di Parma in merito ai neuroni specchio.

Insomma tutti siamo in grado di percepire le sofferenze e, più in generale, le emozioni altrui, ma non tutti facciamo uso di questa capacità allo stesso modo. Del resto ci difenderemo dalle emozioni dell’altro nella stessa misura in cui ci difendiamo dalle nostre. Nessuno psicoterapeuta ha più neuroni specchio di un comune altro cittadino. Piuttosto un bravo psicoterapeuta fa un uso diverso delle informazioni provenienti dai neuroni parmigiani. Un uso può essere specchiare le reazioni del paziente, e quindi usando empatia, simpatia e compassione. Oppure, in alternativa può porsi in un modo che non sia necessariamente un elevazione a potenza dell’assetto del paziente.

Le 4 Qualità dello psicoterapeuta 

Dunque arriviamo al dunque.

Caronte, lo psicopompo traghettatore di anime, è tutt’altro che empatico, simpatico e compassionevole. Non ci consola, anzi piuttosto impietosamente ci conduce nella direzione opposta a quella richiesta. Ci conduce all’inferno, a quell’infero territorio psichico popolato di immagini, archetipi, emozioni socialmente non desiderabili. Quindi è da lui che proverei a mettere a fuoco le qualità di un bravo psicoterapeuta, di cui solo una prima ha una connotazione neutra, mentre le altre 4 risultano inaspettate e, a tratti, deprecabili

Dunque una prima caratteristica di un buon psicoterapeuta, e non dico nulla di nuovo, è il saper stare con le emozioni, con gli archetipi, con le immagini. Le sue, quelle del paziente e quelle del mondo. Di qualsiasi natura esse siano. Un bravo psicoterapeuta è un buongustaio emozionale, assaggia di tutto in qualsiasi paese sia in visita e, curioso, assapora senza farsi condizionare dalle sue abitudini alimentari, pur non dimenticandole.

Questo, però, ci spinge a riflettere su altre qualità del terapeuta che potrebbero risultare meno desiderabili socialmente. Tra queste troviamo l’essere sadico, egoista, antipatico e profondamente pettegolo.

La pazienza dei pazienti è la più grande forma d’arte esistente

Le emozioni possono essere più o meno belle nel senso comune ma, in ottica di Anima, nell’ottica di uno psicologo, ogni emozione è bella. Dalla peggiore depressione all’amore più alto, dalla volontà di suicidio alla volontà di conseguire una laurea, dalla più grande vittoria alla più grande sconfitta, tutte, e dico tutte, le emozioni e le esperienze, sono di una bellezza sconfinata in quanto semplici manifestazioni di psiche.

Inoltre non c’è bisogno di lavorare a livelli alti per apprezzarne i contorni. Non succede come per altre professioni che vedono solo i grandi architetti, ingegneri, avvocati ecc. prendere contatto con progetti bellissimi. In Psicologia, già prima della laurea, si prende contatto con le forme più alte della psiche, le emozioni e le immagini portate dai pazienti.

Quindi, mentre le palazzine di un quartiere periferico non sono artisticamente rilevanti come le poderose e ricercate architetture del centro città, ogni paziente è un’opera d’arte, sempre. Questo è il lusso di questa professione, ossia avere sempre a che fare con progetti bellissimi.

1 Il terapeuta è sadico

La prima qualità inaspettata di un buon terapeuta è di essere sadico. Un terapeuta è un contemplatore di emozioni. La contemplazione rinvia alla capacità di rendere gravido ciò che viene contemplato e contemplare la sofferenza implica il piacere nel veder soffrire l’altro fino a renderlo gravido.

Mi capita da sempre nella vita che, quando mi viene comunicata una brutta notizia su qualcuno, mi senta diviso tra il dispiacere per quella persona, e un certo gusto nel pensare che non sia capitato a me e, infine, nel pensare che ora sono curioso di sapere cosa farà. Come un gatto che giocherella con un topolino senza volerlo per nulla mangiare, contemplo, in estasi, il tragico evolversi degli eventi fuori e dentro di me.

In terapia avviene lo stesso. Ma questo padre sadico che fa fare i giochi più pericolosi, si maschera, o deve mascherarsi da madre accogliente per poter essere a sua volta accolto. Quindi al sadismo si accompagna un certo atteggiamento truffaldino e mercuriale (considerando che Mercurio era messaggero degli dei). Il paziente soffre e il terapeuta sente e contempla quel pathos come se fosse un’opera d’arte michelangiolesca. A testa in su contempla le caratteristiche materiche della pennellata, delle velature e dei colori di quell’affresco e, mentre il paziente soffre, il terapeuta gode nella sua celata estasi. E questo godimento permetterà al paziente di apprezzare le parti di se che evita da sempre.

[Clicca qui e leggi Le 120 giornate di sodoma di De Sade per approfondire il sadismo]

Se non vi fosse questa qualità non vi sarebbe spazio per la sofferenza, per il pathos, per le passioni. Quello stesso pathos che il terapeuta al contempo contempla e patisce.

2 Il terapeuta è antipatico

Per contro, una seconda qualità di un buon terapeuta è essere antipatico.

Il paziente deve fare questa esperienza, deve provare un certo astio, una certa repulsione nei confronti del terapeuta. L’anti-patia non è altro che l’atteggiamento che si oppone al pathos, ossia alla sofferenza.

Un terapeuta contempla la sofferenza ma agisce anche per opporvisi se non risulta funzionale al percorso del paziente.

Opporsi significa opporsi al racconto del paziente, significa proporre racconti paralleli o alternativi, significa dire “non è così”, “non ti credo”, “questa è una esagerazione”. Chi si oppone è antipatico, ma sta soltanto opponendosi alla sofferenza non a noi. Sta cercando di creare una via per dialogare con la sofferenza. Ma i pazienti sono molto affezionati alla loro sofferenza e agli iperbolici racconti faticosamente creati per giustificarla. Allora l’antipatia del terapeuta è curativa nella misura in cui è il segno del suo impegno, del terapeuta si intende, a riscrivere a 4 mani quel racconto cercando di restituire agli eventi la loro naturale tragicità e svincolarli dall’egida del trauma.

3 Il terapeuta è egoista

Terzo, il terapeuta deve essere egoista. Ogni terapeuta, promuovendo il benessere del paziente (benessere da intendersi non come piacere, ma come favorire l’individuazione), cura anche se medesimo.

Ogni terapeuta ha bisogno dei suoi pazienti più di quanto la nostra categoria voglia far sapere. Quindi ogni terapeuta soddisfa questo bisogno e in tal senso favorisce il benessere del paziente perché così sta meglio lui stesso. Come un medico può ammalarsi e aver bisogno di cure così un terapeuta. Ma mentre il medico solo a volte può curarsi e medicarsi da se, uno psicoterapeuta lo fa in ogni singola seduta poiché i pazienti sono il suo balsamo. In sintesi ogni terapeuta  nella stanza d’analisi sta curando se medesimo, e il benessere dei pazienti, la loro capacità di individuarsi è sempre e soltanto un effetto collaterale di questo autocura. Per questo il terapeuta dipende dai pazienti più di quanto loro dipendano da lui e, ci ricorda Hillman

“Non ce ne stiamo seduti  nel nostro studio tutte quelle ore ogni giorno soltanto per i soldi o per il potere, ma perché siamo dipendenti, come dei tossicomani, dal narcisismo analitico”(J. Hillman, Oltre l’Umanismo)

4 Il terapeuta è un gran pettegolo

Infine, a chiudere questa quaternità, non possiamo dimenticare che per stare ad ascoltare le storie dei pazienti, storie a volte frizzanti, a volte tragiche, a volte banali o routinarie, a volte iperboliche, a volte assurde, insomma, per ascoltarle tutte, il terapeuta deve essere estremamente pettegolo.

C’è il pettegolezzo, di cui si dice tanto male; ma che in fondo è la base della carità, dell’interesse per il prossimo diceva Mario Soldati.

Essere avidi di racconti, di particolari, essere guardoni, impiccioni, riconduce ad una qualità deprecabile ma, ahimè, necessaria.

La parola “pettegolo” rimanda etimologicamente a un “piccolo peto”, quello che generalmente evitiamo, celiamo, quello che tratteniamo perché inopportuno e imbarazzante. Quello che a volte facciamo per strada dopo esserci accertati di stare soli, oppure a letto. Ma proprio questo un terapeuta cerca. Cerca il peto e lo fa avidamente e con piacere, lo stesso piacere che ognuno di noi ha nello stare con i suoi “odori”.

Resta inteso che è un appetito e una voracità di racconti che restano in quel recinto specifico, con quello specifico paziente. Non potendoli portare fuori allora anche il terapeuta fa i suoi racconti e li mescola con quelli del paziente.

È questa mescolanza che cura.

Come scegliere

Dunque come sceglier e un terapeuta? Forse alla maniera di un buon medico ossia non cercando quello che ci fa stare bene o che ci da diagnosi fauste, quanto piuttosto scegliendo quello che ha il coraggio di farci stare male se ce ne è di bisogno, che ha il coraggio di dirci la verità. Ci pagano per avere le nostre reazioni, diceva Hillman. Al diavolo l’astinenza di Freudiana memoria. Se un terapeuta sta zitto solo a volte si concede e concede al paziente il diritto al silenzio, molte altre non sa cosa dire. Eccoli i pazienti che passano da un terapeuta all’altro in attesa di trovare colui che gli dirà qualcosa che rispetti le attese. E eccoli i terapeuti che ricevono i pazienti che hanno appena sospeso la terapia con un collega, eccoli che si gongolano senza sapere quanti dei propri pazienti siano andati via dalla propria stanza d’analisi.

Ma questa era la psicologia che si era posta sulla scranno, che aveva ereditato quella funzione religiosa che apparteneva alla confessione. Oggi, invece c’è una nuova psicoterapia e ci sono bravi professionisti che sono scesi dalla scranno e non hanno paura di essere antipatici, sadici, egoisti e pettegoli e se li incontrate, si se li incontrate allora buona Terapia.

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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