«Coloro che soffrono nel mondo, soffrono perché desiderano la propria felicità. Coloro che sono felici nel mondo, sono felici perché desiderano la felicità altrui. Perché discuterne ancora? Osservate questa distinzione: lo sciocco agogna il proprio egoistico vantaggio, mentre il saggio agisce a vantaggio degli altri». (Śāntideva, filosofo buddhista)

Tradizionalmente, il masochismo è considerato una forma di perversione (o parafilia) che consiste nel ricavare piacere da ciò che solitamente arreca dolore, danno fisico o psicologico. Il masochista ricava dunque il proprio godimento dall’inflizione, autonoma o per mezzo di un partner, di dolore fisico, umiliazioni psicologiche e così via. Ciò potrebbe già stimolarci una riflessione che qui pongo tramite una domanda: queste pratiche sono in qualche modo atte ad inscenare simbolicamente uno sminuimento della dignità umana? Cioè, l’essere umano in quanto tale, vuole denigrare la sua condizione di umanità attraverso l’umiliazione masochistica? Forse la questione è molto più complessa di così.

Masochismo come opposto di altruismo

Il nostro intento qui però, è quello di fornire una rilettura archetipica del masochismo, attraverso quanto abbiamo già detto circa l’archetipo del nulla. Ciò non toglie quanto già è noto circa il masochismo, ma semmai aggiunge una riflessione circa la sua eziologia. L’aspetto che qui ci interessa di più non è tanto quello fisico, ma un “negarsi all’altro”.

Sigmund Freud ha trattato la questione sia in Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (1905) che, più specificamente, in Über den sado-masochistischen Komplex (1913), dove il masochismo era unito al sadismo nel generico “sadomasochismo” (ricavare piacere attraverso l’atto di infliggere dolore o di ricevere punizioni corporali e/o fisiche), eppure, l’eziologia che il fondatore della psicoanalisi proponeva per questi comportamenti non sembra soddisfare a pieno la grande questione antropologica: perché soffrire? Cioè: qual è quella forza psicologica di potenza tale da portare il soggetto a trasformare il dolore in piacere?

Qui veniamo al grande tema del nulla. Gli dèi sono diventati malattie, scriveva Hillman citando Jung, ed in effetti nulla meglio di una figura divina, introiettata come archetipo, è in grado di giustificare una simile potenza distruttiva.

In passato ho parlato dell’archetipo del nulla, cioè di quell’idea reificata che porta all’implicita convinzione, ed al terrore inconscio, che l’essere umano sia destinato a diventare nulla. Nelle antiche culture di tutto il mondo, dove la morte è sempre un passaggio da una condizione all’altra (il morto, si dice, è “scomparso”, ma continua ad essere in forme e mondi diversi dal nostro), il concetto di annullamento, cioè l’incongruente convinzione (non a caso Severino parla di “follia dell’Occidente”) che l’essere possa non-essere, viene mitigato dalla potenza religiosa.

Le tre vie del nichilismo

La via religiosa

Vi sono infatti tre “vie” per gestire l’angoscia nichilistica. La prima è la via religiosa. Come ha dimostrato Ernesto de Martino nei suoi lavori, la religione nasce prevalentemente come “dispositivo” per gestire il rischio antropologico del nulla. La ritualità è quella forza di destorificazione che riporta alla vita la dimensione del mito, in cui si sostanzia una creazione in un tempo al di fuori del tempo, eterna, sempre vera, immutabile, immortale. Il problema è che la religione, imbrigliando la potenza del nulla, la usa a proprio vantaggio: mantiene infatti i fedeli nella convinzione che la distruzione dell’anima sia un rischio reale, ma riserva solo a coloro che siglano il patto con il dio il privilegio della salvezza: i veri credenti non moriranno, ma avranno garantita un’altra vita o, a seconda dei casi, l’immortalità dell’anima.

La via della consapevolezza psicologica

La seconda via del nichilismo è una via di consapevolezza psicologica. Tanto le grandi tradizioni ascetiche o meditative, quanto la moderna psicoanalisi, hanno nella loro spinta profonda, l’intenzione di conoscere la realtà psichica per superare quei fraintendimenti ingannevoli che provocano in noi angoscia. Il nulla viene vinto quando viene riconosciuto come archetipo malato, o al contempo, quando si riconosce che la nostra “anima”, nel senso che lo stesso Hillman attribuiva a questo termine, è più che una semplice idea, ma è lo stesso essere dell’umano. Ricordiamoci sempre che ciò che chiamiamo “essere umano” è prima di tutto “essere” (e poi è “umano”), e l’anima è proprio questo essere che nella vita si manifesta attraverso la soggettività. Per questo, il senso di “destino” in Hillman è analogo a quello dato da Severino. Essendo che il destino è ciò che sta (dē-stinō) in senso assoluto, e cioè che rivela la verità ineffabile delle cose, è anche ciò che, attraverso il nostro sviluppo psicologico è predisposto ad accadere, proprio in quanto già stabilito dal nostro essere più intimo che è l’anima.

«L’immagine di un intero destino sta tutta stipata in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente. La vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene.» (James Hillman, “Il Codice dell’Anima”)

Prima di dire qual è la terza via del nichilismo è necessario aggiungere un elemento al nostro discorso. L’essere umano è un essere sociale. Il grande discorso lacaniano sul rapporto tra il sé medesimo e l’altro da noi dovrebbe insegnarci che noi ci diamo, esistiamo ed abbiamo valore solo nel rapporto con l’altro. L’altro è però il grande sconosciuto. È ciò che rispecchia il nostro inconscio in quanto simboleggia l’ignoto, e spesso l’altro è per noi proprio uno specchio, in quanto, nel rapporto umano, si captano vicendevolmente ansie, angosce e paure dell’altro, e nel dialogo queste vengono riproiettate, rigettate. Ma per quanto un rapporto realmente profondo, intenso e di scambio reale, potrebbe veramente permetterci un’individuazione eccezionale, farci capire chi siamo e cosa siamo destinati ad essere in questo mondo, la paura e l’ansia che tale confronto annichilisca la nostra identità ci porta ad evadere dai rapporti, a mediarli attraverso la superficialità delle maschere e degli stereotipi, salvo coltivare una profonda insoddisfazione e solitudine inconscia che, ovviamente, fa la fortuna di tanti psicoanalisti destinati però a constatare una sempre maggiore devastazione nei rapporti umani. Eppure noi siamo destinati all’altro. La natura umana tenderà sempre verso il suo completamento che consiste nel ritrovarsi nell’altro. E fintantoché ci negheremo questa riunificazione, godendo masochisticamente del nostro stesso autoisolamento, siamo condannati all’incompletezza. Anche nel mito viene insegnato che la natura umana è quella di un’unità, mentre oggi siamo solo metà di ciò che potremmo essere, in quanto la nostra natura completa era potente e sublime, e per questo avversa alle divinità che ce la invidiavano, condannandoci per questo alla divisione.

«Zeus ebbe un’idea e disse: “Credo di aver trovato il modo perché gli uomini possano continuare ad esistere rinunciando però, una volta diventati più deboli, alle loro insolenze. Adesso li taglierò in due uno per uno, e così si indeboliranno e nel contempo, raddoppiando il loro numero, diventeranno più utili a noi.” (Platone, Simposio)

In questa devastazione moderna, è necessario, anzi indispensabile, che la psicoanalisi faccia la sua parte come argine contro l’oggettificazione dell’essere umano, che porta inevitabilmente ad atteggiamenti di superficialità e di avversione nei confronti dell’altro. L’essere umano ha valore solo quando non è isolato: noi siamo inevitabilmente metà destinate ad un intero, ma ciò che ci completa è necessariamente altro da noi, e solo accogliendolo possiamo realizzare anche noi stessi. La narrazione moderna invece offre una visione diversa: le relazioni sono una prigione, impegnarsi seriamente nei rapporti umani è una fatica inutile, nessuno vuole scavare a fondo nella propria soggettività quando si può vivere godendo dei piaceri superficiali della vita anche solo mettendo avanti sempre la maschera e valutando in base al pregiudizio.

L’angosciante rapporto con l’altro

Per Lacan in masochista è colui che gode del suo dolore in quanto ha trasformato la sua soggettività in oggettività. In altre parole, il masochista si pone oggettificazione: trasforma il suo essere in oggetto, ed in questo oggettificarsi compie perfettamente il disegno nichilistico che vede l’essere come oggetto distruttibile.

La via dell’isolamento

Il masochismo è, in questo senso, la tanatologica volontà di autodistruzione realizzata dall’archetipo del nulla al massimo della sua potenza. È un disegno machiavellico e ben più potente di qualsiasi altro istinto di morte: l’isolamento è la vera forza tanatologica, la vera autodistruzione. È la terza via del nichilismo. C’è chi di fronte al terrore nichilistico tenta di scongiurarlo attraverso le vie religiose, chi tenta di vincerlo con l’ascesi, ed infine, c’è colui che decide di accogliere il nichilismo provando a godere del proprio stesso dolore. La massima espressione del masochismo-nichilismo non è dunque, come molti pensano, l’autopunizione fisica (algolagnia), ma piuttosto il volontario isolamento. Essendo che il destino umano è tendere verso l’altro, perdersi nell’altro e unificarsi all’altro, il masochista è colui che invece, accogliendo il nichilismo come forma ordinaria, inizia a proiettare il terrore di annullamento nell’altro. Teme dunque l’amore (filofobia), le relazioni, le amicizie ed i rapporti umani che tendono ad uno scambio profondo e intenso. Il masochista evita ogni legame affettivo stabile e si concentra sul godere del proprio esser nulla nella solitudine. Si parla di un isolamento affettivo, magari circondato da numerose amicizie o rapporti superficiali, in cui però non emerge mai il vero sé di alcuno, lasciando nei fatti l’anima isolata. Perché tutto ciò? Bisogna comunque dire che, nonostante il masochista accolga ed accetti di convivere con l’angoscia nichilista, ottiene da questa alleanza con l’archetipo del nulla qualcosa che gli altri non hanno: sicurezza e stabilità. È infatti nel legame che subentra per lui l’insicurezza, al punto che preferisce dimorare nella sicura sofferenza dell’angoscia nichilistica, piuttosto che accettare qualcosa che è ancor più terrificante: il confronto con l’altro da sé. Il nichilismo è almeno un male sicuro. Il confronto con l’altro è ignoto.

Come ogni riflessione che si rispetti, è opportuno fornire anche una soluzione al problema presentato. La soluzione è semplice, anche se la sua potenza è tale da “nientificare” lo stesso nulla che ha generato questo problema. La vittoria contro il masochismo è infatti l’altruismo totale.

Il vero altruismo

Il vero altruismo è ciò che spinge verso l’altro al punto di annullare sé stessi: perdersi nell’altro. Questo è un significato profondo ed antico di amore passionale che è totalmente assente nella società moderna, in cui sembra sempre più difficile stabilire un legame sentimentale o di affetto amicale che sia realmente stabile, profondo, di inter-relazione costante. Le persone sono spaventate, talvolta terrorizzate da un impegno che implichi un pieno coinvolgimento. Ma nella società dell’egoismo estremo, in cui ognuno è attaccato al proprio ego psicologico, è ovvio che la prospettiva di unione non è vista come una liberazione, ma come una prigionìa, o un “rischio” di “perdere sé stessi”. Il paradosso della società nichilistica moderna è dunque quello di venerare come libertà ciò che è in realtà la vera prigione: cioè l’attaccamento alla propria superficiale maschera psicologica, che porta inevitabilmente alla ricerca sfrenata del godimento immediato mosso dalla spinta pulsionale a meta indeterminata, il godimento “slegato”, “svicolato” dai pericolosi “legami” affettivi. Inoltre, il rapporto oggi implica una serie di atavici terrori psicologici, primo fra tutti il confronto ed il giudizio: terrorizzati come siamo, dalla moderna società della prestazione, da un continuo confronto con l’altro, preferiamo evitare ogni rapporto che implichi uno scambio, così da evitare le paure del giudizio. Se solo la società avesse ascoltato l’insegnamento di Hillman, saprebbe che ogni giudizio è solo un vezzo superfluo di arroganza, giacché ognuno è esattamente destinato ad essere ciò che deve essere, ma solo chi ha compiuto un percorso serio di analisi può ovviamente raggiungere una simile consapevolezza.

«A questo punto, diventa straordinariamente facile comprendere la nostra vita: comunque siamo, non potevamo essere altrimenti. Niente rimpianti, niente strade sbagliate, niente veri errori. L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere.» (James Hillman, “Il Codice dell’Anima”)

Conclusioni

Nella società moderna all’altro viene negata ogni dignità, e di fatto viene abolito come interlocutore. Il modello educativo nella società globalizzata è il massimo dell’egocentrismo. L’altro è relegato ad oggetto feticistico del piacere fisico o utilitaristico. La dignità umana, ossia la capacità di riconoscere l’altro come un “mio altro”, cioè come un mio specchio, un’altra parte di me, è de facto privata di ogni riconoscimento. Si gode dei diritti solo fintantoché si rispettano i canoni comportamentali e le aspettative sociali, ma anche in questo caso non si gode della dignità piena di una “persona”. Siamo troppo impegnati a pensare al nostro benessere primario, e vediamo nelle relazioni umane e negli affetti, qualcosa che ci “priva” del tempo da dedicare a noi stessi, al nostro benessere, e così ognuno si chiude sempre più nella propria autoreferenziale solitudine, finanche ad iniziare a persuadersi che alla fine stare da soli non è poi così male, “basto a me stesso”, al punto da godere della stessa solitudine che mi deumanizza, perché mi lascia incompleto. Un profondo cambiamento psicologico si rende necessario a vincere questo archetipo del nulla che ci porta a godere del nostro stesso dolore, e questo cambiamento deve coincidere con una rivoluzione antropologica e sociale: in un mondo, attualmente utopistico ma sempre auspicabile, in cui ognuno si dedichi al benessere dell’altro, ogni soggetto godrebbe della soddisfazione del suo bisogno primario, e non lo ricercherebbe più nell’autoreferenzialismo. Al tempo stesso, godendo dell’altruismo, di chi sceglie di curarsi prima di noi che di sé, possiamo noi stessi mettere in atto un circolo virtuoso, e curarci a nostra volta degli altri che si curano di noi. Proviamo ad immaginare come sarebbe un mondo così.

P.S. CLICCA QUI per leggere Nati sotto l’archetipo del nulla

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Info sull'autore

Federico Divino

Antropologo e Linguista, specializzato in Antropologia della salute mentale (etnopsichiatria). Ha compiuto un percorso di formazione personale in psicoanalisi.

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