Blocco nelle relazioni e paura della morte

La difficoltà nelle relazioni interpersonali, e ancor più nelle relazioni affettive, passionali, amorose (comunque le si voglia chiamare) è uno dei problemi più frequenti che uno psicoanalista si trova a dover affrontare quando si interfaccia con i suoi analizzanti.

Non si tratta di un problema del nostro tempo ma è forse uno dei problemi più antichi della società umana e forse è vecchio quanto l’essere umano: perché da quando c’è l’umano c’è il bisogno dell’umano di colmare il suo vuoto. Noi nasciamo con un vuoto da colmare ma ben presto capiamo che questo riempirci ci cambia, perché per tutto il tempo che siamo rimasti vuoti e abbiamo dovuto interfacciare questo nostro vuoto con le difficoltà del mondo esterno, abbiamo vissuto e frequentato questa vacuità interiore, fino ad allearci ed identificarci con essa. L’essere umano si nasconde dietro la maschera della sua solitudine e manda avanti un “io”, una “persona” (come direbbe Jung) che appunto, come l’origine stesso del termine “persona” indica (persōna in latino, dall’etrusco phersu) è una maschera, un’identità fittizia. Ma l’essere umano si dimentica del suo vero sé, che è solo metà di un intero, un vero sé spezzato, nascosto dietro la maschera dell’io.

La teoria che proponiamo in questo articolo è semplice: ciò che ci blocca nelle relazioni affettive, che ci fa temere di gettarci autenticamente nell’altro, è proprio la paura della morte, e questa è la morte dell’io.

Sabina Špil’rejn: l’atto d’amore come morte reciproca

Uno dei personaggi senza dubbio più interessanti nella storia della psicoanalisi, sia per biografia personale e vicende a lei legata che si sono intrecciate con la nascita della pratica psicoanalitica, sia per le teorie innovative che ha portato al circolo psicoanalitico è la figura di Sabina Špil’rejn.

Freud non aveva ancora elaborato a pieno la teoria sulla “pulsione di morte” (thánatos), ma un’idea in particolare di questa brillante psicoanalista sembra avvicinarsi molto all’idea freudiana. Non si tratta però di una nichilistica spinta all’autoannullamento, come Freud interpretava l’atrocità della guerra, ma piuttosto una ricerca di una morte che è solo apparente, è cioè “morte” di una fase precedente di sé, un qualcosa di vecchio che viene abbandonato in favore della nascita di un nuovo e più autentico sé, come la fenice che dalle sue ceneri si rinnova ma che appunto prima di rinascere ha bisogno di morire (post fata resurgo).

La figura della Špil’rejn sembra ormai relegata a quella parte di gossip psicoanalitico che si ricorda di lei solo per la relazione “clandestina” con Jung, ed il suo fare quasi da cardine nel rapporto tra quest’ultimo e Freud, fino al momento della loro rottura definitiva. Ruolo che è stato interpretato da Keira Knightley nel noto (e spesso criticato) film diretto da David Cronenberg.

Il caso della Špil’rejn è dunque significativo per molti aspetti, sia per la sua biografia che per le sue teorie psicoanalitiche. Lei stessa incomincia la sua analisi con Jung e individuerà nella sessualità e nella relazione affettiva il fulcro del suo problema, e la sua stessa relazione con il suo analista è in questo senso un caso esemplare. Ma la Špil’rejn guarì, anche e soprattutto grazie alla sua grande forza personale, e chiunque potrebbe verificarlo studiandone un po’ la biografia. Ciò che ricaverà dalla sua esperienza psicoanalitica non sarà semplicemente una carriera da psichiatra, ma anche una affascinante teoria sull’amore e la sessualità, che coinvolge la pulsione di morte.

Secondo la Špil’rejn, nella sessualità e nell’affettività più autentica, ciò che viene messo in pratica dai due amanti attraverso l’atto d’amore è una vera e propria morte reciproca. La Špil’rejn però non intendeva questa morte come un istinto all’autoannullamento, non era cioè una forza distruttiva che aveva come unico scopo l’annichilimento. Non è questo il vero volto della morte. Per la Špil’rejn infatti, la morte che attende i due amanti è solo un passaggio necessario affinché si possa effettuare la rinascita di entrambi come nuova unità. Questa è la teoria espressa ne La distruzione come causa della nascita (Die Destruktion als Ursache des Werdens, Jahrbuch fur psychoanalytische und psychopathologische Forschunqen, vol. IV, Leipzig Wien 1912).

Questa idea di amore come pulsione distruttiva (atta però ad una ri-nascita costruttiva) fu in un primo momento rifiutata da Freud, ma più avanti sarà riconosciuta alla teoria della Špil’rejn di aver anticipato l’idea tanatologica di Freud. Questa teoria fu invece ripresa da Jung nel suo Simboli della Trasformazione.

Dare e ricevere amore

L’autentico e arcano significato della relazione umana è dunque quello della trasformazione metamorfica alchemica? C’è una rinascita che attende i due amanti dopo la distruzione dei loro reciproci “ego”? Questa teoria “alchemica” ci impone però di considerare la maggior parte dei rapporti moderni come simulacri di questa più autentica e profonda forma di affettività. La paura di annullarsi è tanta, e previene la volontà ed il bisogno di completamento che il vero sé ha, soffocato e parassitato dalla “persona” che si ingrandisce a scapito di una più autentica forma di affetto.

Certamente nel mondo moderno non è facile sperimentare questa forma profonda di amore, come del resto non lo era neanche in passato. La società si è sempre retta su convenzioni e aspettative che spingono i singoli a costruire identità farlocche che finiscono per sostituirsi alle vere esigenze della persona. Il compito dello psicoanalista in questa pirandelliana età moderna dell’uno, nessuno, centomila è quello di valorizzare la vera soggettività della persona, le sue emozioni e tutto ciò che la rende individuo peculiare e insostituibile, facendo capire che nascondersi dietro le maschere e le rappresentazioni non può che portare ad una felicità effimera, temporanea, che non ci completerà mai. Ed in fondo è proprio questo senso di incompletezza, unito alla paura dell’impossibilità di colmare il nostro vuoto, che sfocia nelle varie forme di difficoltà relazionali.

Il grande problema nelle difficoltà relazionali è duplice: non sta soltanto nella diffidenza e nella paura che si ha nell’aprirsi e nel donare il proprio amore (con tutte le conseguenti angosce che ne possono derivare in relazione alla possibilità di rifiuto e alla non-accettazione) ma anche e soprattutto la paura di ricevere l’autenticità dell’altro, che non ci sentiamo pronti ad accogliere.

Conclusioni: cosa ci blocca dunque nelle relazioni?

La risposta più semplice potrebbe essere “la paura della morte”, ma sappiamo che in fondo ciò che ci attende è l’esatto contrario della morte.

Ciò che ci lasciamo alle spalle, ciò che si potrebbe dire “muore” nella relazione più autentica è proprio l’io, ma dalle ceneri di questa phersu (maschera) rinasce una vera identità ritrovata, un sé fatto di due metà che ora si completano, e proprio in questo loro completarsi a vicenda rendono futile la presenza di un ego.

P.S. CLICCA QUI per leggere Quando morire è necessario per amare

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Info sull'autore

Federico Divino

Antropologo e Linguista, specializzato in Antropologia della salute mentale (etnopsichiatria). Ha compiuto un percorso di formazione personale in psicoanalisi.

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