Ridete! Ridete pure! Ma ride ben, chi ride ultimo! Dite quel che volete ma io sono un uomo proprio riuscito! [Riceve una sonora pernacchia] Vabbè, riuscito magari no, ma diciamo almeno che sono fortunato! Che cosa mi manca? Io ho tutto: ho una bellissima casa ad equocanone, in fondina un telecomando a 99 canali, una figlia meravigliosa… m-meravigliosa! E una moglie fedele! Io sono il più felice di tutti! Ho voglia di giocare, spostati, Mariangela… sono for-tu-na-ti-ssi-mooooooooooo! [cade in un pozzo profondissimo] (da Fantozzi contro tutti)

L’autostima è un costrutto portante della psicologia. L’avere autostima è un mantra che sentiamo ripetere in continuazione. Stimare se stessi viene dipinto come uno dei presupposti per una vita felice. Una via d’accesso privilegiata per l’equilibrio e la realizzazione.

Il famoso Fantozzi di Paolo Villaggio può essere l’emblema della lotta fra autostima (bassa e alta) e realizzazione. Sì, perché avere problemi d’autostima sembra essere un cruccio, una difficoltà radicale da risolvere. “Se non ti stimi, come possono stimarti gli altri?”: la domanda alla base dei canonici ragionamenti sull’autostima. Ragionamenti a cui anche un piccolo uomo borghese come Fantozzi si è dovuto sottoporre.

In queste righe vorrei provare a seguire un ragionamento diverso: l’autostima, per come è generalmente pensata, è una “cagata pazzesca”, per citare proprio Fantozzi.

La stima di Fantozzi

Imitare le qualità e le caratteristiche altrui è molto più vergognoso del portare abiti altrui: perché è il giudizio della propria nullità espresso da se stessi (Schopenhauer)

In uno dei film della famosa serie cinematografica con Paolo Villaggio, Fantozzi era costretto assieme ai suoi colleghi ad assistere a lunghissime proiezioni di film di nicchia. Fino a quando, nell’opposizione fra film e partita della Nazionale di calcio, di fronte all’ennesima umiliazione, scatta una sorta di rivoluzione proletaria, con la frase diventata cult “La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!”. In questa scena c’è una breve e significativa evoluzione del personaggio Fantozzi. Un uomo che rappresenta la cosiddetta classe media italiana dell’ultima metà del secolo scorso. Un uomo racchiuso in una vita priva di picchi positivi, una vita piana, appiattita sul lavoro. Nell’Italia descritta in Fantozzi, le soddisfazioni potevano provenire solo dal lavoro e dal successo con l’altro sesso. E il povero ragioniere era relegato in una così bassa stima, da parte sua e degli altri, da non riuscire a brillare in nessun campo. Perfino la devota moglie non dirà mai di amare il marito. Dirà piuttosto che lo “stima tantissimo”. Fantozzi si adatta a questa condizione e, seppure senza brillare, vive la sua condizione, film dopo film. Alla ricerca di una soddisfazione che potesse provenire sempre prima dall’esterno.

I rari punti di alti livelli di autostima fantozziana si rivoltano costantemente in conseguenze grottesche, che riportano il personaggio nella sua condizione originale, nel migliore dei casi.

Il personaggio di Fantozzi, seppure con caratteristiche estremizzate, ha saputo descrivere il prototipo dell’uomo della seconda metà del Novecento. E proprio alcune delle sue caratteristiche sono un prezioso esempio per il ragionamento alla base delle righe che state leggendo.

Se guardiamo al ragioniere più famoso d’Italia con gli occhi di un trentenne del 2020, forse ci troveremo più spunti di soddisfazione di quanti crediamo. Fantozzi ha un lavoro a tempo indeterminato, per quanto in un’azienda che fa dell’a-moralità il suo credo. Fantozzi ha una casa di proprietà, seppure con mobili vetusti coperti dalla plastica per non essere sgualciti. Fantozzi ha una vita familiare, anche se imperfetta. Fantozzi riesce anche ad andare in pensione. Salvo poi accorgersi che in pensione viene privato della sua ancora di realtà principale: il lavoro. Presunta ulteriore funzione salvifica per l’umanità: se non lavori, sei meno “uomo”.

Cambiano i parametri dell’autostima con il cambiare del tempo e dei tempi? Sicuramente sì. Perché in questa lettura di autostima fantozziana, c’è la radice della visione comune dell’autostima: stima non per ciò che siamo, ma per ciò che vorremmo essere.

La stima impossibile

Tutto diventa così problematico a causa di alcuni difetti di base: una generale insoddisfazione di me stessa (Anna Freud)

Nella psicologia del lavoro, molto spesso si trova una competizione dogmatica. Da un lato c’è chi dice che un’elefantessa non potrà mai diventare una ballerina. Dall’altro c’è chi sostiene che un’elefantessa può diventarlo. A ognuno la propria opinione.

È una massima evocativa, sicuramente, e che apre la porta a una infinita gamma di commenti. Ma un’elefantessa, se non gli attribuiamo caratteristiche umane, perché mai dovrebbe voler fare la ballerina? In natura non credo esistano ruoli di spettacolo. E anche se ancora prima di Esopo agli animali abbiamo attribuito caratteristiche umane per raccontare pezzi di umanità, probabilmente proprio con raffronti di questo tipo possiamo capire perché l’autostima per come la consideriamo è qualcosa di davvero stupido.

Poniamo per ipotesi che l’elefantessa della frase voglia a tutti i costi diventare una ballerina. Attribuisce a questo desiderio un’importanza tanto forte da farla coincidere con la propria identità: se non sarà (non il verbo fare, ma il verbo essere) una ballerina, non si sentirà mai se stessa. Ergo, avrà livelli di auto-stima talmente bassi da perdere la motivazione a realizzarsi. Perché riceverà probabilmente innumerevoli feedback negativi dall’esterno. Perché si sentirà costantemente inadeguata. E la sua passione viscerale per la danza, da ancora di forza e di entusiasmo, diventerà un fardello opprimente.

In questo senso, l’autostima diventa un costrutto costantemente proiettato nel futuro. Un tempo, che per definizione, non ancora esiste, ma che possiamo provare a influenzare.

Fermatevi un attimo a ragionare: quanti di voi riescono a farsi un quadro di se stessi, senza unire la propria identità ai propri ruoli ed obiettivi? È lo stesso principio per cui non si dice “faccio la psicologa”, ma “sono una psicologa”. Una realtà che, dall’esterno, proiettiamo all’interno. E il successo nel lavoro diventa successo personale. Soprattutto, l’insuccesso lavorativo diventa l’insuccesso della persona.

Perché non stimiamo chi siamo, ma stimiamo (tanto o poco) quello che facciamo. Attribuiamo più o meno importanza a determinati aspetti di noi e li facciamo diventare centrali, con un peso specifico ben delineato. E qui risiede forse l’errore principale che fa coincidere l’autostima con un concetto quasi inutile: l’autostima non presuppone la conoscenza di se stessi, ma di ciò che proiettiamo, facciamo o realizziamo.

Conclusioni

Io, Pina, ho una caratteristica: loro non lo sanno, ma io sono indistruttibile, e sai perché? Perché sono il più grande “perditore” di tutti i tempi. Ho perso sempre tutto: due guerre mondiali, un impero coloniale, otto – dico otto! – campionati mondiali di calcio consecutivi, capacità d’acquisto della lira, fiducia in chi mi governa… e la testa, per un mostr… per una donna come te(da Fantozzi contro tutti)

L’autostima è un concetto letteralmente neutro. Non c’è un prefisso o un suffisso che caratterizza questo fenomeno come positivo o negativo. Infatti, più correttamente si può parlare di livelli di autostima, bassi, medi o alti. Ma l’autostima in sé non ha gradazioni.

In questo senso, da fenomeno psicologico, potrebbe facilmente trasformarsi più in un fenomeno osservabile dalla Fisica o dalla Biologia. Ovviamente una provocazione. Ma è un costrutto fisico, perché si basa sui sistemi. Nella scienza fisica, un evento che avviene su un sistema è diverso dallo stesso evento che avviene su un sistema diverso. Lo stesso vale per l’autostima per come la si descrive attualmente. Un lavoratore che non guadagna, un uomo comune che rinuncia a tutti i suoi soldi, probabilmente si sentirà irrealizzato, insoddisfatto, con bassi livelli di autostima. Ma un mistico, un religioso che rinuncia a tutti i suoi beni probabilmente sarà valutato da sé e dagli altri in modo decisamente positivo. L’autostima è un costrutto biologico, perché si basa sulla relazione fra organismi, animati e inanimati. Così come la pensiamo attualmente, è un costrutto che da solo non può esistere, ma che vive esclusivamente in relazione con gli altri.

Fantozzi è insoddisfatto e ha bassi livelli di autostima perché il suo piano di realtà è un piano fatto di parametri economici e di “conquiste”; è insoddisfatto perché la sua interazione con altri organismi non gli permette di raggiungere il suo obiettivo di identità.

L’autostima è un concetto davvero leggero per come la pensiamo attualmente. Nel fare psicologia, più che lavorare sull’auto-stima, potrebbe essere molto più utile concentrarsi sulla conoscenza e sulla acquisizione di consapevolezza. Altrimenti, l’autostima diventa una cagata pazzesca. Davvero.

P.S. CLICCA QUI per leggere Essere resilienti? No grazie. La resilienza per la psicologia archetipica

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Info sull'autore

Teresa Di Matteo

Psicologa, Psicoterapeuta in formazione

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