Marco Mengoni ha vinto.

Due vite, questo è l’inedito di Marco Mengoni che ha vinto il Festival di Sanremo 2023.

Un brano profondamente poetico, dai tratti dolci ma che sa anche scavare profondamente. Un brano che racconta una dinamica comune e apparentemente banale: l’alternanza tra la vita interiore e quella esteriore.

Una vita quindi è quella che potremmo dire diurna, ossia quella che trascorriamo in mezzo alle persone, quella in cui siamo immersi nel lavoro, nelle relazioni con gli altri, nelle attività di svago, ecc. Quella vita in cui siamo un po’ più lontani dall’introspezione, la vita di “sopra”.

E poi c’è l’altra vita, quella notturna, quella che viviamo in solitudine, quella che non condividiamo se non con pochissimi, quella vita del “sotto”, che possiamo esplorare solo quando restiamo soli con noi stessi.

Scopriamo quindi insieme l’aspetto immaginale di questa canzone, il significato psicologico che si cela tra le note e le parole.

Un testo, quello che ci presenta Mengoni, che evidenzia una dinamica psicologica universale e fondamentale: le Due vite dell’anima.

Non conosco.

«Siamo i soli svegli in tutto l’universo
E non conosco ancora bene il tuo deserto
Forse è in un posto del mio cuore
Dove il sole è sempre spento
Dove a volte ti perdo
Ma se voglio ti prendo»

E a proposito di vita notturna, Mengoni inizia il brano con: Siamo soli svegli in tutto l’universo, frase che pronuncia appena con un filo di voce, che rimanda alla sottigliezza della notte, della percezione emotiva. Ed è una frase che porta con sé una verità fondamentale delle Due vite dell’anima: siamo soli quando ci avviciniamo a noi stessi.

Parafrasando Oscar Wilde, non conosciamo l’orbita del nostro deserto interiore, non sappiamo ben dire da quale parte del nostro cuore provenga tutto ciò che viviamo emotivamente. È qualcosa che sembra tanto un misto tra immensità e vuoto, un qualcosa che non possiamo mai completamente afferrare.

È questa quindi l’emozione principale che ci arriva dalla prima parte della canzone: l’angoscia di noi stessi e del non poterci afferrare tutti in una volta.

Capita allora di rimanere svegli la notte e chiederci chi siamo, dove stiamo andando, cosa vogliamo veramente. E in quelle notti ci accorgiamo che ci sono posti della nostra interiorità dove, appunto, non batte il sole; posti dove a tratti abbiamo la sensazione di esserci persi e dopo un po’ di aver fatto ritorno senza aver capito bene come.

Siamo i mostri e le fate.

«Siamo fermi in un tempo così
Che solleva le strade

Con il cielo ad un passo da qui
Siamo i mostri e le fate
Dovrei telefonarti
Dirti le cose che sento
Ma ho finito le scuse»

Mentre nella nostra versione diurna, finita e razionale, siamo attivi e frenetici, dentro noi stessi la vita è infinita ed in continuo disvelamento. È qualcosa che non possiamo arrestare.

Ci accorgiamo allora che possiamo vivere tempi così, fermi, sospesi, vicinissimi come ad un cielo interiore che ci pare quasi di poter toccare.

Tutto questo movimento interno ci indica allora che viviamo Due vite, alle volte difficili da accettare, da sopportare e può esserci una differenza profonda tra ciò che viviamo e ciò che mostriamo.

Eppure noi siamo ancora noi anche così.

Ed è in questo punto che Mengoni ci presenta un’altra verità fondamentale di queste Due vite dell’anima: non siamo solo ciò che ci piacerebbe essere, siamo sia i mostri che le fate.

Nella vita diurna, cerchiamo di far emergere sempre le nostre fate, le nostre qualità, i nostri lati migliori. Ma quando ritorniamo nella nostra solitudine, con un po’ di coraggio, possiamo prendere consapevolezza che siamo abitati anche da tanti mostri: paure irrazionali, invidie, rabbie, odio verso noi e gli altri, disprezzo e vendetta.

A questo punto quindi, qualche volta, sarebbe il caso di telefonarci, di contattare i nostri stati d’animo più profondi e ammettere a noi stessi cosa proviamo davvero. Perché è questo passaggio che ci permette di sentirci profondamente, che ci mostra come spesso – per evitare questo incontro spinoso – ci inganniamo con tante scuse… che ad un certo punto finiscono.

E meno male.

«E non ho più difese
Siamo un libro sul pavimento in una casa vuota
Che sembra la nostra
[…]
E ci siamo fottuti ancora una notte
Fuori un locale
E meno male»

E meno male, lo canta quasi con sollievo Mengoni. Meno male che nelle Due vite dell’anima, quella interiore, notturna, ci fa rompere a volte tutti gli schemi: ci permette di perderci e di fotterci come fuori un locale, senza troppe pretese, senza aspettative alle volte ingombranti con le quali coesistiamo.

Dobbiamo saperci quindi lasciare lì: come un libro sul pavimento di una casa, la nostra, senza la minima idea di cosa ne sarà di noi, permettendo che qualche volta le cose vadano per il verso che vogliono.

Perché capita che la nostra casa interiore ci appaia anche vuota, soprattutto quando siamo in preda ad una forte desolazione.

E tu non dormi.

«Se questa è l’ultima
Canzone e poi la luna esploderà
Sarò lì a dirti che sbagli ti sbagli e lo sai

Qui non arriva la musica
E tu non dormi
E dove sarai»

Non si dorme quando siamo alle prese con noi stessi, con qualcosa che dentro di noi chiede presenza e asilo presso la nostra coscienza.

Dove sosteremo in attesa che torni il giorno e l’altra delle Due vite dell’anima “riparta”?

Ci sarà mai un’ultima canzone, un ultimo stato d’animo dopo il quale cesseremo di avvertire la drammaticità della nostra esistenza? Perché spesso gli stati d’animo sono come canzoni ripetitive che non cessano di ripresentarsi finché non le abbiamo ascoltate.

Esploderà questa luna interiore, cesserà questo effetto notturno che a tratti somiglia quasi ad una malattia? Tornerà mai definitivamente lo stato diurno?

Ti sbagli… perché l’alternanza è inevitabile.

In questo ritornello dalla matrice opposta, scopriamo che ci sono zone della nostra interiorità dove non arriva la musica, musica che generalmente ha il carattere della vitalità. Musica che in questo caso assume il valore di qualcosa che parte dall’esterno per raggiungerci verso l’interno.

E restiamo allora lì ancora svegli e in sospeso, non sappiamo interiormente dove siamo finiti e perché, però non possiamo non viverci la nostra realtà interiore.

Avvolti.

«Quando la vita poi esagera
Tutte le corse e gli schiaffi gli sbagli che fai
Quando qualcosa ti agita
[…]

Spegni la luce anche se non ti va
Restiamo al buio avvolti
Solo dal suono della voce
Al di là della follia che balla in tutte le cose
Due vite guarda che disordine»

I momenti in cui siamo più sofferenti sono anche i momenti in cui risentiamo maggiormente delle manifestazioni della vita. Quando la vita poi esagera, ci prende a schiaffi, non vorremmo mai arrivare a sera e spegnere la luce, né allontanarci da tutti e ritrovarci a contatto con la parte buia delle Due vite dell’anima.

Mengoni sembra cantare questa strofa con molta dolcezza, come per accompagnarci verso una consapevolezza necessaria.

In certi momenti, che ci piaccia o no, dobbiamo quindi avvolgerci nel nostro buio e ascoltare la voce della nostra interiorità.

È allora che ci ritroveremo improvvisamente, se sapremo ascoltare con pazienza, aldilà della follia con la quale siamo costantemente a contatto mentre viviamo.

Ecco quindi come, tra le Due vite dell’anima, spesso riscopriamo un disordine quasi disperante, che può lasciarci impotenti.

Conclusioni.

«Che giri fanno due vite»

Come trottole, capita di sentirci sbattuti, in balia dei giri di queste Due vite che conduciamo.

Il brano di Mengoni ci descrive molto bene, a tratti anche in modo un po’ enigmatico, come queste Due vite dell’anima possano portarci disorientamento e come possano svolgersi in modi diversi.

Per esempio, quando cerchiamo di essere sempre propositivi nella vita e poi invece siamo assaliti da attacchi di panico e d’ansia.

Come al contrario, quando i progetti della nostra vita non stanno seguendo alla perfezione il piano che avevamo in mente, ma riusciamo a vivere comunque una certa serenità interiore.

Ci verrebbe allora da chiederci come colmare il divario tra queste Due vite?

Rispondo con una citazione di Carl Rogers: “Il curioso paradosso è che quando mi accetto per come sono, allora posso cambiare”.

Per colmare il divario dobbiamo quindi comprenderlo. Se la vita diurna è quella nella quale possiamo agire direttamente e realizzarci ad un livello concreto; quella notturna, quella dell’interiorità, quella che ci tiene svegli di notte anche se vorremmo dormire, quella alla quale non possiamo mai davvero sfuggire, è la nostra bussola, il nostro Nord interiore.