Psicologia e archetipi del calcio: Mondiali 2018




Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. [Pierpaolo Pasolini]

Fino a qualche anno fa, l’Italia era nota come paese del bel calcio.

Le domeniche italiane avevano un rito ben scandito: messa, famiglia e pallone. Per non parlare delle notti magiche delle estati mondiali. Chi non ha passato serate estive tra amici e parenti a cantare l’inno nazionale, a vestirsi da azzurro con il tricolore sventolante da balconi e finestre? Quelle estati che Gianna Nannini ed Edoardo Bennato battezzarono notti magicheNotti magiche inseguendo un goal, racconta la canzone.

Notti, in realtà, in cui centinaia e centinaia di persone si sono riconosciute come soldati di un esercito che non combatte guerre o battaglie, ma che insegue sogni, anche, irrealizzabili. Nel calcio tutti noi inseguiamo l’irraggiungibile. Nel calcio tutto diventa possibile. Ogni squadra ha i suoi campioni: simboli, bandiere, perfetti eroi. Immagini ideali di un’intera comunità. Questo è vero per le squadre che rappresentano città o regioni. Diventa ancora più viscerale quando una maglia si trasforma nella divisa di un’intera nazione. Dalla divisa alla bandiera di un popolo intero. Il calcio diventa archetipo collettivo di milioni di individui che, nonostante storie di vita così distanti, si scoprono simili. Non è un caso che i mondiali di calcio, almeno per ora, si svolgano all’inizio dell’estate.

Così come i bambini e i ragazzi vivono la fine della scuola, gli adulti (o presunti tali) hanno l’occasione di riscoprire e dare nuova vita al loro puer interiore. Nei minuti delle partite si ha l’occasione, o per meglio dire lo spazio, per mandare i pensieri in vacanza e far correre pulsioni ed energie tenute per le briglie o al guinzaglio.

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Russia 2018

Nelle ultime ore è stato dato il fischio d’inizio al nuovo campionato del mondo [Mondiali di calcio Russia 2018].

Milioni di persone si sono ritrovate attaccate ad uno schermo o allo stadio a rincorrere con lo sguardo un pallone, da ogni angolo del globo.

Noi italiani, popolo di poeti, santi e navigatori (e di calciofili), stiamo subendo l’onta di un’esclusione che ha toccato il prestigio sportivo di una squadra e che, soprattutto, sembra colpire ciascuno di noi nel profondo. Ciascuno di noi sembra chiedere a se stesso e ai suoi pari: “Dov’è l’Italia?”

In questa domanda, però, si cela una ricerca ben più complessa. C’è una domanda molto più impegnativa. Nel chiederci che fine ha fatto la nostra nazionale ci chiediamo che fine ha fatto la nostra nazionalità. Ci chiediamo dove possiamo cercare l’archetipo collettivo che ci rende parte di una comunità e non solo persone con storie e problemi individuali.

Il calcio, d’altronde, è uno sport che esiste da più di due secoli. In questi anni ha saputo attrarre intorno a se innumerevoli reazioni che hanno tutte una matrice psichica.

Ma cosa nasconde questa palla che attira milioni di seguaci, numerosi investimenti e travolgenti passioni?

Proviamo a scoprirlo attraverso la psicologia archetipica …

IL CALCIATORE: ARCHETIPO DEL GUERRIERO

La differenza tra un guerriero e un uomo comune è che l’uomo prende tutto come una benedizione o una sciagura, mentre il guerriero prende tutto come una sfida, e le sfide non sono né buone né cattive: sono semplicemente sfide. [Carlos Castaneda]

Il calciatore incarna l’archetipo del guerriero. Combatte le sue battaglie sportive con grinta e forza di volontà. Persegue un ideale, in una lotta perenne e in una competitività esasperata per mostrare la propria superiorità sul campo di calcio. Mosso da furore agonistico difende il proprio terreno finché la palla non centra la rete. I calciatori, come i guerrieri, combattono anno dopo anno, battaglia dopo battaglia, partita dopo partita con concentrazione e determinazione, undici contro undici: poco importa se intorno a loro gridano migliaia di persone. Quando scende in campo non conosce più amici o fratelli ma riconosce solo gli alleati della stessa battaglia con l’obiettivo di trionfare sull’archetipo del nemico.

LA PSICOLOGIA DEL PORTIERE

Un guerriero su tutti riveste un ruolo del tutto particolare; sembra sovvertire le regole della competizione, pur essendone parte integrante. Parliamo del portiere.

A lui spetta il compito di difendere le linee amiche, è l’ultimo baluardo per la vittoria del nemico. Per la maggior parte della partita sembra lontano dal gioco, al di fuori dalle tattiche di squadra. Lo si nota solo quando è sotto attacco. Il portiere ha un suo modo di vedere il gioco; ha la psicologia del portiere.

La sua bravura sta nei riflessi, nella capacità di reagire agli impulsi. Il portiere di talento ha la capacità di prevedere i movimenti degli avversari. La psicologia del portiere specchia la psiche degli avversari e della sua difesa. Gioca da solo e contemporaneamente in sinergia con la sua difesa e con i suoi nemici.

Se nelle partite di calcio dei campetti di periferia nessuno vorrebbe mai essere il portiere, pur di avere la gloria dell’attaccante, in realtà nella vita, tutti noi ci sentiamo portieri della nostra anima, baluardo consapevole a difesa dell’inconsapevole. Ciascuno di noi vive e lotta in sinergia con le proprie difese, i propri attacchi e tentando di prevedere gli imprevisti. Il portiere sembra avere i contorni dell’archetipo del guardiano. Anche se nella nostra essenza il portiere avrebbe più il ruolo del mediano…

… una vita da mediano, a recuperar palloni nato senza piedi buoni (…) che natura non ti ha dato né lo spunto della punta né del dieci che peccato … anni di fatica e botte e vinci caso mai i mondiali. [Luciano Ligabue]

PSICOLOGIA DEL CALCIO DI RIGORE

Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia [Eugenio Montale]

Secoli fa c’erano due modi fondamentali per combattere una battaglia: far scontrare le truppe in campo aperto oppure una sfida tra i campioni delle diverse fazioni. In quest’ultimo caso, due guerrieri si facevano avanti e si combattevano a vicenda; assumevano su di loro il destino della battaglia e dell’onore dell’intero esercito, sospesi tra la vittoria e la sconfitta. Allo stesso modo ci sono due modi per vincere una partita di calcio: giocare e segnare undici contro undici oppure affrontarsi ai calci di rigore.

Chi può dimenticare i rigori della notte di Berlino del 2006?

Lì, dal dischetto degli undici metri, si sfidano singolarmente gli eroi di due squadre, di due nazioni, di due popoli. Nella notte di Berlino tutti gli italiani, calciofili e non, fissavano Fabio Grosso e sentivano una pressione che sembrava riguardarli direttamente. Nel suo urlo si liberò l’urlo di un’intera nazione. In quella notte tutti ci siamo sentiti orgogliosi di essere italiani.

Al contrario, nessuno può dimenticare il rigore di Roberto Baggio. Per anni quei minuti hanno segnato la carriera di un campione, di un potenziale eroe che sarebbe potuto diventare leggenda. Come in battaglia venivano scelti i due guerrieri migliori così nella lotteria dei calci di rigore l’allenatore decide di schierare gli atleti che abbiano non solo qualità tecniche ma soprattutto la freddezza mentale necessaria a reggere la pressione emotiva dei desideri di un popolo intero.

Soprattutto nei mondiali di calcio, i calci di rigore assumono i contorni dell’ultima possibilità. Un confronto di novanta minuti può finire in pareggio; una competizione, però, deve per forza avere un vincitore e un vinto. Nel calcio non esistono armistizi. Il calcio, pur parlando al bambino che è in ognuno di noi, ci ricorda che in ogni istante della nostra vita siamo messi di fronte a prove che hanno solamente due risultati possibili: successo o disfatta.

Immaginate la pressione che porta su di Sé il calciatore del rigore decisivo. Nella vita di tutti i giorni, dipende dalle nostre scelte, dalle nostre azioni, dalle nostre emozioni se le nostre prove porteranno ad un goal. Nei mondiali di calcio, il calciatore può conquistare o perdere la vittoria per se e per la sua nazione. Si dice che è molto raro avere una seconda possibilità.

I calci di rigore sono una seconda possibilità per vincere una partita ma costituiscono una sfida secca. Assomigliano alla lotteria di capodanno, a un’estrazione da record al superenalotto. Sono quel sottile confine che separa un sogno dalla realtà. Ognuno di noi sa bene, però, che la vita è molto più difficile di un colpo di fortuna.

Il successo di una persona si realizza lungo strade e viaggi lunghi e faticosi. La vittoria dell’Io, allo stesso modo, non può realizzarsi senza disputare prima un intero campionato, un intero mondiale. Ai rigori decisivi, ai rigori leggendari, si giunge solo dopo aver corso per innumerevoli partite. Gli occhi saranno puntati su se stessi al dischetto del rigore.

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IL TIFOSO: ARCHETIPO DEL PUER

Ognuno di noi porta dentro di sé un lato infantile, una parte che non può mediare. È come se si attivasse il bimbo che dice: “Voglio tutto e se non posso averlo è la fine”. [M.L Von Franz]

Ogni comunità ha bisogno dei suoi simboli. Ogni individuo ha bisogno di uno spazio in cui raccontare se stesso. Ogni individuo ha bisogno di sentirsi parte di un inconscio collettivo. Abbiamo bisogno di aggrapparci ad archetipi che ci facciano sentire meno soli nell’universo.

Se oggi c’è sempre più distanza dai colori politici, non si può dire lo stesso per il calcio. Il tifoso è quel puer aeternus che trova un terreno per sfogare la propria identità. Si è liberi di urlare.

Si è liberi di lasciarsi andare. Si è liberi di giocare. Si è liberi di esprimere i propri sentimenti, senza paura di perdere briciole di virilità. Non a caso i tifosi più estremi “amano” la propria squadra. E come in un amore umano, ci si immerge in una passione irrazionale e, per questo, magica. La vittoria di una squadra di calcio è la vittoria del tifoso e del suo bambino interiore. È la vittoria di un popolo intero. È la vittoria del puer pronto a collezionare emozioni, figurine e leggende da raccontare.

Una nazionale che non si qualifica per i mondiali di calcio disegna un “trauma”. Affanna il gioco del nostro puer interiore. È l’andare a scuola durante le vacanze estive. È un temporale che spegne il ferragosto. Siamo italiani davanti ad uno schermo, siamo pueri senza nutrimento.

Dov’è l’Italia?

Dove sono gli italiani? Dov’è il divertimento per il nostro Puer?

Sarebbe bello se potessimo rispondere a tutte queste domande senza dover parlare di calcio. Ma siamo italiani: popolo di poeti, santi, navigatori e … calciofili.

LA SQUADRA : ARCHETIPO DELLA GRANDE MADRE

Ogni appassionato di calcio non rinnega la propria squadra del cuore.

Ne accetta i colori. Introietta i suoi racconti. Dietro ogni squadra c’è una storia in cui essere accolti. Storie di vittorie, di fallimenti, di delusioni. Storie di incredibili gioie. Nel giro dei novanta minuti, il tifoso si allontana dalla ruotine quotidiana. Entra in un mondo extraterrestre. Viene divorato in un microcosmo. Con la propria squadra di calcio si può essere salvati. È come una grande madre che accoglie e consola.

Parlare di nazionale diventa parlare di “Madre Patria”. Durante le guerre mondiali generazioni di giovani erano inviati al fronte in difesa della madre patria. Durante i mondiali di calcio le trincee vengono a disegnarsi nei divani, nelle tavolate, nei bar o nelle piazze davanti ai maxi schermi. Si può essere distrutti, come dopo una cocente sconfitta. Ci si può sentire inghiottiti dalle sabbie mobili della delusione come dopo la partita con la Svezia che ci ha condannato a vivere i mondiali di calcio senza essere protagonisti di questo gioco. Ma si può anche vincere e sentirsi parte di un racconto mitologico, come è successo per noi italiani quattro volte. Come nel 2006 quando la vittoria del Mondiale di calcio è riuscita a cancellare la vergogna di Calciopoli. Quando il calcio italiano sembrava aver toccato il fondo, l’archetipo della Grande Madre (Nazionale di calcio) ci ha risollevato.

Mi scusi, Presidente, non è per colpa mia ma questa nostra Patria non so che cosa sia… mi scusi, Presidente se arrivo all’impudenza di dire che non sento alcuna appartenenza… mi scusi, Presidente lo so che non gioite se il grido “Italia, Italia” c’è solo alle partite… io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo, per fortuna lo sono. [Giorgio Gaber]

L’ALLENATORE: ARCHETIPO DEL SAGGIO

Lui più di tutti incarna l’archetipo del vecchio saggio. L’allenatore di calcio parla per schemi. Progetta tattiche. Dipinge strategie da far interpretare alla forza irrazionale dei giocatori. Resta distante dal gioco; siede su una panchina. A volte siede pensieroso con una pipa in bocca, come Enzo Bearzot, o festeggia fumando un sigaro, come Marcello Lippi. Ma sarà sempre il primo colpevole in caso di sconfitta. L’allenatore non vuole modificare le regole dello scontro tra guerrieri, ma tenta di comprendere le mosse dell’avversario. Guida la forza irrazionale degli undici guardando l’essenza del gioco. Non rincorre un pallone, ma ne anticipa i movimenti.

La sfida dell’allenatore, così come del saggio, è quella di decifrare gli indizi che trova lungo il suo cammino. La sfida è tradurre l’irrealizzabile in realtà. Dietro gli schermi dei televisori tutti i calciofili tentano di trasformarsi in allenatori. L’archetipo del vecchio saggio tenta di prendere il sopravvento. Ognuno di noi prova a decifrare passaggi e schemi, proiettando la propria forza su undici giocatori dall’altra parte del mondo. Ognuno di noi guardando una partita di calcio, tifando la propria nazionale, proietta il desiderio di trasformare l’irrealizzabile in meravigliosa realtà.

E’ il Vecchio Saggio buono e comprensivo che capisce e sostiene e dà buoni consigli, ma anche il Vecchio Re, freddo, crudele e vendicativo che intimorisce ed annichilisce. [C.G. Jung]

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CONCLUSIONI

Non c’è un altro posto del mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio del calcio [Albert Camus]

Per molti il calcio è solo un gioco.

In realtà, chi segue questo sport assiste a un lungo spettacolo teatrale. Uno spettacolo fatto di rituali, di simboli, di individui e di maschere. Nel calcio si perde l’identità del singolo per acquistare l’identità di un gruppo. L’archetipo collettivo che in questi giorni, per noi italiani, appare disorientato, ha perso un’occasione per fungere da collante tra il singolo e un intero popolo.

Nel calcio, il gioco del bambino può diventare passione incontrollata dell’adulto.

Il calcio, ogni domenica, ogni estate mondiale, disegna praterie per l’irrazionale. Regala notti così magiche da poter tramutare l’impossibile in possibile.

Peccato, però, che i sogni diventano reali in poche occasioni… ne riparleremo tra quattro anni.

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo: intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Umberto Saba, Goal

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Info sull'autore

Teresa Di Matteo

Psicologa, Psicoterapeuta in formazione

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