L’imperdonabile e il senso di colpa




A volte devi fare qualcosa di imperdonabile per continuare a vivere [Carl Gustv Jung]

Può accadere che entriamo in analisi per dimenticarci, per dimenticare ciò che ci fa sentire in colpa, ovvero le nostre azioni imperdonabili.

Sicuramente ognuno di noi nella propria vita è dovuto essere più o meno consapevolmente imperdonabile. Ognuno di noi ha commesso atti imperdonabili per cui sentirsi in colpa, sia nei confronti degli altri, che nei confronti di sé stessi.

Gli junghiani dicono che quando si è vicino al Sé può capitare di commettere azioni sbagliate, tuttavia è proprio in quel momento che siamo proprio noi!

La riflessione che ho fatto in questo n.6 della Rivista di Psicologia L’Anima Fa Arte [aggiornata ed approfondita in alcuni punti rispetto all’originale], parla di colpa e di perdono, parla di ciò che può essere considerato deprecabile e imperdonabile nella vita di tutti i giorni.

In fondo la dimensione dell’imperdonabile è un caposaldo della vita di ognuno di noi. Perfino Cristo fece dell’imperdonabile il motivo centrale della propria vita, cercando di redimere l’uomo e il Padre.

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Je ne regrette rien

Mentre cercavo e attendevo con l’immaginazione delle metafore per poter parlare di questo argomento, ho iniziato a buttare giù, su di un foglio, qualche parola in maniera confusa. Lentamente dentro le mie orecchie hanno preso forma le note di una canzone. In principio non ne ho avuto cura, ma le note persistevano. Chiedendo a chi mi stava vicino che canzone fosse, ho scoperto che si trattava di Je ne regrette rien di Édith Piaf.

Questa canzone è proprio il “ponte” archetipico di cui abbiamo bisogno per entrare più facilmente all’interno di questo argomento, per osservare gli abissi dell’imperdonabile. Ascoltiamone le note e leggiamo il testo:

Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait
Ni le mal; tout ça m’est bien égal !
Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
C’est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé !
Avec mes souvenirs
J’ai allumé le feu
Mes chagrins, mes plaisirs
Je n’ai plus besoin d’eux !
Balayées les amours
Et tous leurs trémolos
Balayés pour toujours
Je repars à zéro
Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
Ni le bien qu’on m’a fait
Ni le mal; tout ça m’est bien égal !
Non, rien de rien
Non, je ne regrette rien
Car ma vie, car mes joies
Aujourd’hui, ça commence avec toi

No, niente di niente!
No, non rimpiango niente!
Né il bene né tutto il male che m’hai fatto, e mi sta
bene così.
No, niente di niente!
No, non rimpiango niente!
È stato tutto saldato, spazzato via, dimenticato.
Me ne fotto del passato.
Coi miei ricordi,
innesco la fiamma,
i miei dispiaceri ed i miei piaceri,
non ho più bisogno di essi.
Rimossi gli amori
e tutti i loro tremoli,
dimenticati per sempre.
Riparto da zero.
No, niente di niente!
Neanche del bene che m’hai fatto.
No, niente di niente!
Poiché oggi, la mia vita, le mie gioie
tutto riparte con te.

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La vita di Édith

Ti presento brevemente Édith.

Édith Piaf è Édith Giovanna Gassion, cantante dalla voce oscura e profonda, chiamata il piaf ovvero il “passerotto”.

La leggenda vuole che “il passerotto” sia nato su dei gradini di un civico settantadue. Allevata per alcuni anni in un bordello, da sua zia e dalle prostitute che lavoravano nella casa. Durante i primi anni di vita si dice che bevesse vino rosso in sostituzione del latte per combattere eventuali malattie e batteri.

Édith ebbe una vita turbolenta, già all’età di otto anni il padre la portava con sé per farla cantare e racimolare qualche soldo in più. A diciassette anni ebbe una figlia, che Édith portava in strada quando cantava, non curandosene molto. A due anni la figlia si ammalò di meningite e morì.

Louis Lepleè la “scoprì” come cantante e la fece debuttare in un locale di cabaret sotto lo pseudonimo di “La Mome Piaf”. In seguito Lepleè venne assassinato da persone legate a Édith, ma lei ne risultò innocente. Nel 1936 pubblica il suo primo disco intitolato “La mome del la closches”. Durante la seconda guerra mondiale cantò per i soldati tedeschi e verso la fine della stessa, incise il suo grande successo: La vie en rose, anche se non fu la prima a cantare questa canzone.

Édith ebbe un’intensa relazione con il pugile Marcel Cerdan, che morì in un incidente aereo. La sera dell’incidente Édith cantò ugualmente in suo onore, ma dopo alcune canzoni, e sotto massicce dosi di farmaci, Édith ebbe un crollo sul palco e cadde priva di sensi. Da quel momento in poi, anche a causa dell’artrite reumatoide, fece costante uso di morfina. Édith continuò a cantare regalandoci altri capolavori della musica, fra i quali Je ne regrette rien. In seguito si sposò nuovamente per pochi anni con il compositore Jaques Pills, e successivamente con Théo Sarapo.

Infine Édith morì a causa della cirrosi epatica che la affliggeva in seguito ad una ricaduta di broncopolmonite.

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Nessun rimpianto

Édith Piaf canta Je ne regrette rien per la prima volta, registrandola, nel 1960, tre anni prima di morire nel 1963. È una canzone legata alla sua esistenza sofferente e intensa.

Édith non rimpiange nulla, si perdona ogni cosa. Perdona il bene, ma anche il male, a sé stessa e agli altri. Vuole ripartire da zero.

Il mezzo che usa per cancellare i suoi peccati e quelli degli altri, lo possiamo leggere nei versi della canzone: è la dimenticanza, l’oblio, la distruzione dei propri ricordi. Rinuncia anche ai bei ricordi pur di perdonarsi e perdonare, pur di ricominciare da capo.

Édith Piaf si dimentica e dimentica, distrugge la sua vita per darsi un’altra occasione. Nasce nuovamente per essere ancora una volta Édith Piaf in una nuova veste.

Azioni imperdonabili ci trasformano e ci portano ad essere qualcun’altro nella vita. Ma è proprio questo il loro senso, come se fossero un sintomo della psiche che passa attraverso un atto, piuttosto che attraverso una malattia o una patologia. Possiamo vivere una forte depressione, o avere un attacco di panico, possiamo soffrire d’ansia o, in alternativa, fare “acting out”, ovvero un’azione imperdonabile, un’azione che nessun altro potrebbe concederti, se non te stesso.

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La cattiva coscienza e il senso di colpa

Appena commettiamo qualcosa che solo noi possiamo concederci, in piena autonomia, e senza l’assenso di qualcun altro, nella nostra cultura facilmente emerge il senso di colpa. Altri personaggi che che convivono assieme nella nostra Psiche, cominciano a puntare il dito contro il nostro agire imperdonabile.

Ma torniamo per un istante indietro di qualche anno, e arriviamo a fine Novecento quando Friedrich Nietzsche modellava i fogli di carta con il suo pensiero “postumo”.

Per il filosofo tedesco la colpa è un elemento innaturale dell’uomo, causata dalla “cattiva coscienza” (Schlechtes Gewissen) che è la malattia più profonda di cui soffre l’uomo, e che si è creato per permettersi di vivere nella società. Bisogna perciò, in qualche modo, liberarsi dalla coscienza di colpa. Anche Nietzsche, con un linguaggio diverso, ci suggerisce un’operazione di “dimenticanza” e oblio.

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Dimenticare

Dimenticare etimologicamente significa “fare uscire di mente“. L’atto del dimenticare implica il far uscire dalla memoria i nostri ricordi. Il dimenticarsi significa far uscire sé stessi da dentro di sé. In particolare qualche parte di sé che ci procura senso di colpa.

La colpa è un far del male, un far danno. In questo caso il senso di colpa è ciò che ci permette di individuare gli atti che fanno del male a noi e agli altri. Il problema, anche suggerito da Nietzsche, è che noi non abbiamo la minima idea di ciò che è male e ciò che è bene, perché ci affidiamo a concetti già pronti per non riflettere, e comunque sono definizioni date dalla Schlechtes Gewissen.

Riformulare tutto il nostro assetto morale sul bene e sul male è complicato, e preferiamo appoggiarci a definizioni collettive già pronte: cibi in scatola, fast food, religioni take away.

Purtroppo, però, la Psiche non è collettiva nella coscienza, ma nell’incoscienza, ed è anche fortemente individuale. Ciò che può andare bene in un caso, potrebbe essere totalmente sbagliato in un altro.

Per rimanere nel campo “Nietzchiano” della classicità notiamo che, anche nel mito, l’oblio e la dimenticanza erano due dimensioni fondamentali. Le anime dei morti prima di rinascere dovevano bere dal fiume Lete, le cui acque servivano a dimenticare.

È significativo il fatto che a livello mitologico, quindi psicologico, per “rinascere” bisogna dimenticare.

Édith Piaf nella sua vita riparte da zero, ricomincia da capo solo dopo aver dimenticato, ovvero solo dopo aver bevuto dell’acqua del fiume Lete. Anche Dante usa il mito del Lete per rinascere nel passaggio dal Purgatorio al Paradiso.

Dimenticanza e rinascita sono quindi strettamente connesse l’una con l’altra.

Qualche anno fa sono stato presente alla Tagung 2014 di Eranos, e tra i vari interventi vi è stato uno che mi ha colpito molto, quello di Emanuele Trevi, scrittore e critico letterario italiano. Nella sua brillante analisi sulla Cura di e Cura del mondo, fatta attraverso il linguaggio letterario, è stata significativa la riflessione in cui si diceva che la cura di sé e l’assunto Delfico “conosci te stesso”, significassero disconosciti e distruggiti.

Completando il discorso con quanto detto fino ad ora in relaziona ad Édith Piaf e Friederich Nietzsche, possiamo affermare che la cura di passa attraverso la dimenticanza di stessi e degli altri, intesa come una distruzione della Schlechtes Gewissen.

Nietzsche non è l’unico ad evocare la dimenticanza. Ad esempio, Jorge Luis Borges afferma: Io non parlo di vendette di perdoni; la dimenticanza è l’unica vendetta e l’unico perdono. È come se Borges mettesse sullo stesso livello vendetta e perdono, e li superasse attraverso la dimenticanza.

Rimanendo in ambito letterario Milan Kundera afferma: L’oblio ci riconduce al presente, pur coniugandosi in tutti i tempi: al futuro, per vivere il cominciamento; al presente per vivere l’istante; al passato per vivere il ritorno; in ogni caso, per non ripetere. Occorre dimenticare per rimanere presenti, dimenticare per non morire, dimenticare per restare fedeli.

Superare la colpa e il perdono significa rimanere vivi nella dimensione del presente.

La maggior parte delle difficoltà, dei problemi e delle pato-logie vivono nel presente attraverso la memoria [secondo Hillman il nostro vero inconscio], sono un continuo ricordare, rimuginare o proiettarsi in avanti con frasi costruite attraverso verbi al futuro. Per sfuggire il presente spesso si usano molte interlocuzioni come il “se”, il “ma”, il “però” e vari verbi usati al condizionale. In questo senso, la dimenticanza è un atto che si compie nel presente e ci libera dal trauma.

L’oblio è una funzione psichica, quando dimentichiamo in realtà introiettiamo ciò che è stato, non permettiamo ai nostri dolori di rimanerci dentro come mattoni, ma li processiamo, li elaboriamo, li dimentichiamo per ciò che sono stati, e li “facciamo uscire dalla mente” in una nuova veste.

Dimenticare significa anche smarrire. Bisogna perdersi nella vita per rendere funzionale l’imperdonabile. Quando lavoro con i miei pazienti, ci sono dei momenti di smarrimento. Quei momenti sono i più importanti dell’analisi. Sono i momenti chiave, nei quali non si sa dove ci si trova. Proprio in quei vuoti attimi, senza punti di riferimento, senza limiti, è possibile re-immaginarsi, costruire qualcosa di nuovo.

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Inception

Je ne regrette rien è la colonna sonora presente nelle scene finali del film Inception, uscito nelle sale nel 2010 e diretto da Jonathan Nolan, in cui i protagonisti devono risvegliarsi dal sogno, nel caso specifico da una serie di costruzioni di immagini mentali atte a fuggire dalla realtà per impiantare un’idea nel soggetto sognante.

Nel film i protagonisti commettono un atto imperdonabile impiantando un’idea nella coscienza altrui, e adoperano la dimenticanza per rinascere nuovamente. In particolare Cobb (Leonardo Di Caprio) torna a casa dai figli e nel momento in cui può conoscere la verità, mentre il totem sta girando, lui sceglie di andare verso la sua verità dimenticando il resto. Solo così nasce un nuovo sistema di vedere le cose.

Vorrei precisare che la memoria è un elemento importantissimo dell’umanità in senso individuale e in senso collettivo, che ci permette di evolvere e migliorare. Ormai, però, troppo spesso la frase “non bisogna dimenticare” si è trasformata in un ostacolo alla vita stessa. Non bisogna legare la memoria alla cattiva coscienza che descrive Nietzsche.

La dimenticanza di cui parliamo è un atto di “far uscire fuori”, per osservarci, per osservare e per trasformare la “cattiva coscienza” in “saggezza”. Parlare di perdono ci apre a una moltitudine di argomenti e vie da percorrere, dalla psicologia al simbolismo, dalla religione all’arte.

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Conclusioni




Il perdono lo troviamo sullo stesso continuum di idee del peccato, e per questo costituiscono uno stesso argomento di cui parlare. Non c’è perdono senza peccato e non c’è peccato senza perdono. Al principio della storia umana commettemmo l’atto imperdonabile di mangiare dall’albero della conoscenza.

Dio in fondo è stato il primo a non perdonare cacciandoci dal paradiso terrestre per una nostra colpa. Grazie a questo atto da “padre”, Dio ci ha permesso di uscire dal Paradiso Terrestre, e di entrare nel Mondo Terrestre. Un mondo in cui male, cattiveria e crudeltà sono presenti. La decisione che Dio compie di non perdonarci ci catapulta nel male e nella “cattiva coscienza”.

Grazie alla sua azione imperdonabile l’uomo nasce agli occhi della storia. Si libera dal Paradiso Terrestre. Entra in un mondo di crudeltà, ma nel contempo nasce come nuovo individuo. Dio sa, in fondo, che per vivificare la sua Creazione e per farla nascere nuovamente, deve cacciarla dal Paradiso Terrestre. Questo atto di Dio è una nuova creazione: l’ottavo giorno in cui Dio non perdonò e creò nuovamente l’uomo.

L’uomo commette l’imperdonabile, ma anche Dio commette l’imperdonabile, ed è proprio da questi due atti che nasce la coscienza umana. La dimenticanza permette al perdonabile di diventare imperdonabile. L’imperdonabile può essere inteso quindi come qualcosa che va al di là della colpa e del perdono. È un atto che non può essere perdonato perché non rientra in ciò che si può condannare o perdonare. È un atto connesso all’oblio. In questa categoria di cose rientra tutto ciò che facciamo per vivere e per andare avanti nel nostro viaggio terrestre.

Raffaele Morelli afferma che la psicoterapia non è fatta per ricordare, ma è fatta per dimenticare, per andare al di là delle categorie del perdonabile e dell’imperdonabile.

In alcuni frangenti della nostra vita possiamo dimenticarci, e quindi possiamo uscire fuori dalla dinamica della colpa e del peccato. Nei momenti di morte, e nei momenti più difficili della vita, così come nei momenti di crisi e di passaggio, dobbiamo mettere in atto l’imperdonabile, ovvero la dimenticanza, per crearci nuovamente e rinascere fuori dalle difficoltà.

 

Bibliografia e Note

Friedirich Nietzsche, La genealogia della morale, Adelphi, 1984
James Hillman, Puer Aeternus, Adelphi, 1999
Piaf Édith, Au bal de la chance. La mia vita, Castelvecchi, 2011
Jorge Borges, Elogio dell’ombra. Seguito da Abbozzo di autobiografia, Einaudi 2007
Milan Kundera, La Lentezza, Adelphi, 1999
David Cornemberg, A dangerous method (Film), 2011

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L’articolo è tratto dal n.6 de L’Anima Fa Arte, Rivista di Psicologia che puoi sfogliare comodamente qui sotto.

 

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Info sull'autore

Michele Mezzanotte

Psicoterapeuta, Direttore Scientifico de L'Anima Fa Arte. Conferenziere e autore di diverse pubblicazioni.

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