Non spetta alla psicoanalisi risolvere il problema dell’omosessualità. Essa deve accontentarsi di rivelare i meccanismi psichici responsabili della scelta oggettuale e di individuare i sentieri che da essi vanno alle disposizioni istintuali (Sigmund Freud)

L’omosessualità è ancora un tabù. È inutile negarlo. Figuriamoci poi se andiamo a discutere delle presunte sottigliezze delle diverse anime del concetto LGBT+. È un tabù che lascia ancora sbalorditi o stupiti molti, anche se per via del “politically correct” siamo spinti a negarlo. È un tabù particolarmente per chi si riconosce nel credo cristiano-cattolico. La pratica dell’omosessualità diventa a tutti gli effetti un peccato per questo credo. L’omosessualità ha profondi significati psicologici. E se ci si chiede “l’omosessualità è un peccato?”, beh, possiamo rispondere con la psicologia. Proviamo a farlo insieme.

Omosessuali: figli di Dio

I funerali di Lucio Dalla sono uno degli esempi più forti di quello che significa essere gay in Italia: vai in chiesa, ti concedono i funerali e ti seppelliscono con il rito cattolico, basta che non dici di essere gay. È il simbolo di quello che siamo, c’è il permissivismo purché ci si volti dall’altra parte (Lucia Annunziata)

Mercoledì scorso papa Francesco nella consueta udienza ha incontrato un gruppo di genitori di figli LGBT. Per chi non avesse familiarità con questo termine, parliamo di “Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transessuali”. Acronimo a cui solitamente si tende ad aggiungere un “+”, per indicare tutte quelle persone che non hanno ancora una precisa etichetta in cui riconoscere il proprio orientamento sessuale. Il papa ha incontrato questi genitori e una di loro ha riportato la frase: “Il Papa ama i vostri figli così come sono, perché sono figli di Dio”. Da queste parole si è aperto ancora una volta un dibattito mai sopito sulla visione che la Chiesa Cattolica ha dell’omosessualità e di tutte le persone che non si riconoscono in un orientamento etero-sessuale. Per alcuni commentatori, la frase del papa può essere considerata come un’apertura. Per altri, invece, è la conferma di una visione ristrettiva-peccaminosa. Rappresenterebbe la pietà che viene associata agli ammalati, a quanti vivono una condizione di sfortuna, di disgrazia. Una situazione di anormalità.

Non è banale ribadire l’unica lettura che ritengo corretta del concetto di normalità: un concetto statistico. La norma è una distribuzione statistica. Normale è un dato che rientra in una distribuzione di normalità. Dire che una persona è normale, oltre che essere una forzatura, significa dire che è una persona che ha caratteristiche simili a buona parte di una popolazione. Di conseguenza a-normale è un concetto di minoranza. Nel gergo comune diventa un concetto di qualità: “normale” coincide con “positivo”; “anormale” con “negativo”.

Chi sta male, per ragioni fisiche, sociali, psicologiche, diventa, nel linguaggio cattolico in particolare, una minoranza a cui dedicare una particolare attenzione. Perché, per una similarità con l’incarnazione di Cristo, chi soffre, chi si trova in minoranza, non per scelta, ma per condizione, diventa un’incarnazione presente di Dio.

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (per chi non lo sapesse, un libro, firmato nella versione attuale da Giovanni Paolo II, in cui è racchiusa la sintesi della visione cattolica sul mondo) l’omosessualità è presentata come una condizione di vita, minoritaria/sfortunata che di per sé non costituisce “peccato”. Peccato diventa l’espressione sessuale dell’omosessualità. Diventa peccato la scelta di vivere l’omosessualità, non la condizione di essere omosessuali.

Lungi da me esprimere giudizi verso chi si riconosce in questo credo. Provo semplicemente a descrivere quanto conosco.

La frase di papa Francesco “il Papa ama i vostri figli così come sono, perché sono figli di Dio”, non aggiunge né toglie nulla a quanto già descritto nel Catechismo.

Omosessualità e colpa

C’è un’associazione in Francia […] che auspica, per gli omosessuali, l’abolizione del ridicolo, e il riconoscimento della “parità dei diritti”: una specie di nuovo femminismo, che si potrebbe chiamare terzosessismo. Forse hanno ragione, chi lo sa. E forse, un giorno, la spunteranno. Ma che tristezza, quando la spunteranno. Sarà tale la tristezza che, vedrete, non ci sarà più nessun gusto a peccare di questo peccato. E non dovendo più nascondersi, non dovendo più sfidare il ridicolo, tutti, anche i meno tranquilli, capiranno che tanto vale amare le donne (Mario Soldati)

In un futuro prossimo penso scriverò qualche riga sulla distinzione fra “senso di colpa” e “senso di peccato”, una differenza sottile, ma sostanziale per chi desidera vivere in modo equilibrato la propria fede con la propria psicologia. Una distinzione che però in molti non esiste. Il cosiddetto “peccato” causa un senso di colpa. Provoca l’ostracismo, ovvero l’esclusione sociale. I cattolici divorziati e risposati non possono accedere alla comunione. Lo stesso vale per persone che vivono pubblicamente l’amore non eterosessuale. La Ricerca in Psicologia ha mostrato come chi è vittima di ostracismo sente in molti casi il senso di colpa per questa esclusione. C’è una parte di noi che quando veniamo esclusi ci fa credere che abbiamo meritato l’esclusione stessa. E se l’esclusione viene motivata per una ragione naturale (colore della pelle, ad esempio) diventa dirompente nella nostra identità. Pensate alla segregazione razziale negli Stati Uniti d’America. Cittadini di colore che desideravano prestare servizio nelle Forze Armate perché si riconoscevano nella loro identità sociale di cittadini americani, ma che venivano esclusi e relegati solo a servizi di cucina per via del colore della loro pelle.

Una persona che si riconosce nel cattolicesimo, che magari è stata cresciuta in un ambiente cattolico e che ha ricevuto anche un’educazione religiosa in tal senso, e che viene tacciata di essere in una condizione di rischio perché sente di poter amare persone del suo stesso sesso, come può sentirsi? Si trova davanti a una profonda ambivalenza. Parti di identità in contrasto fra loro. Ed è chiamata a una scelta identitaria. Accettare i valori cattolici, accettare la propria omosessualità senza però esprimerla. Oppure entrare in una condizione di peccato, accettare l’ostracismo e vivere un’altra parte di identità.

L’ambivalenza è una condizione di sicura fatica, di probabile sofferenza. Non è una condizione psicologica da cui non si può uscire. L’ambivalenza in sé non è una malattia. Diventa disfunzionale quando crea una sofferenza tale da richiedere finzioni dolorose. Nascondersi, negarsi per come si è, genera inevitabilmente un vissuto connesso al senso di colpa. Devo nascondermi perché potrei essere scopert* a fare (o essere) qualcosa che non posso fare (o essere).

L’omosessualità è un peccato

Il movimento gay mi ha sempre fatto schifo. L’omosessuale non è uno che sculetta e si trucca. È la Grecia, è Roma. È una virilità creativa (Franco Zeffirelli)

“Peccato” è la violazione dei precetti di un gruppo. Pertanto, se nella nostra identità è prioritaria l’appartenenza al gruppo “cristiano-cattolico”, se è prioritaria l’adesione totale a tutti i suoi valori, beh, volenti o nolenti si deve accettare la condizione di peccato di chi esprime la propria sessualità non-eterosessuale. Ma psicologicamente non esiste il concetto di peccato. Esiste il senso di colpa verso noi stessi o proiettato verso gli altri. Più gli altri sono significativi e più è forte il nostro senso di colpa per aver provocato in loro una delusione.

Ma nella psicologia non esiste “giusto” o “sbagliato”. Esistono le scelte. Ed esiste la nostra capacità di scegliere. Un’identità omosessuale, piuttosto che eterosessuale o pansessuale, è una parte della nostra identità, non la sua totalità. Un’identità cattolica, piuttosto che buddhista o atea o agnostica, è una parte della nostra identità, non la sua totalità. E le condizioni fisiche, biologiche, genetiche ecc. che ci caratterizzano, non sono e non possono mai diventare una colpa. Sono una parte di noi. Le diverse componenti della nostra identità individuale, sociale, fisica vanno integrate fra loro, in un’armonia (a volte apparentemente stonata) complessa. Un processo che non si può dire compiuto facilmente, che forse non si arresta mai. Psicologicamente, è un peccato vivere un’ambivalenza che causa sofferenza senza lottare per risolverla. Psicologicamente l’omosessualità non sarà mai un peccato.

P.S. CLICCA QUI per leggere Non si cura l’omosessualità, si cura l’omofobia

P.P.S. CLICCA QUI per leggere L’Amore omosessuale senza pregiudizi

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Info sull'autore

Teresa Di Matteo

Psicologa, Psicoterapeuta in formazione

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