Prima le storie dei Paesi erano le storie delle persone. Prima i Paesi avevano una identità che coincideva con l’identità delle persone che li abitavano, con la loro vita. Non era possibile una identità diffusa, anonima, globale.
Di solito il Paese si riconosceva nella riproposizione costante dei suoi riti. Simboli religiosi e regole del potere politico. I riti che il Paese allestiva servivano a promuovere la sua immagine, a fornire ai suoi abitanti quegli strumenti che li avrebbero aiutati nella costruzione dell’immaginario comune.
In questo “prima”, i Paesi costruivano così la loro trascendenza. In questo modo riuscivano a collegare l’umano al divino consegnando i luoghi alla memoria. Si tesseva allora una trama in cui i ricordi personali si intrecciavano con quelli collettivi, in cui la conoscenza dei fatti del mondo era un specie di etica comune: le cose così andavano, in quella sorta di destino mistico dal quale non si poteva sfuggire. Un destino segnato dalle feste di Paese, dai riti alimentari legati al transito delle stagioni, dalle tappe della crescita, le ricorrenze familiari e sociali o dal riconoscersi attraverso l’uso di un linguaggio comune. Insomma, la cosiddetta cultura popolare.

Come le luminarie, per esempio, durante le feste patronali. Quale il loro significato? Il festeggiamento del Santo, certo, l’apoteosi della sua celebrazione. Il Patrono si impadronisce degli spazi del Paese, li riveste della sua luminescenza. La piazza soprattutto, quella antistante la sua chiesa, viene reinterpretata e consegnata alla notte. La notte di luce ridisegna il luogo artisticamente e nel clamore che vi si agita, la città diviene visibile per due, tre giorni di seguito. Teatro aperto, spettacolo di se stesso, il paese e i suoi abitanti attivamente partecipanti.

 


James Turrell, Virtuality squared 2014, Ganzfeld built space, Led Lights

 

Si arriva alla chiesa percorrendo la strada addobbata di paratie luminose, sotto archi che hanno pendagli, cerchi, roselline, ghirigori di lampadine colorate che si riflettono nel cielo. Si sfocia poi nella piazza dove prende spazio la cassarmonica e già questo nome è fortemente evocativo della sua immagine. L’addobbo dello spazio urbano, perderebbe di significato senza un centro di coagulo, appunto una cassa di risonanza nel verso delle migliori aspettative della cultura popolare: i concerti bandistici.
Si tratta di vivere una delle tante manifestazioni della vita religiosa, ma non solo, perché anche nelle luminarie il sacro sta al profano, come l’insegnamento della vita del Santo sta alla sua festa, a quell’aspetto così poco intimista e così socialmente frivolo, a quell’altro intessuto di imprenditorialità e di necessità economiche. Perché i maestri paratori che installano le luminarie, hanno l’estro dell’arte ma sono anche imprese con l’uso di strumenti come pali e telai di legno, scale e camion per il trasporto e sono anche falegnami per l’intaglio dei telai ed elettricisti per l’impiantistica delle luci e disegnatori delle figure che andranno ad installare e che a volte riproducono il frontale delle chiese o di castelli o di altri luoghi famosi. Per essere infine scenografi alla ricerca della profondità e della prospettiva.

 

James Turrell, Light

 

L’arte delle luminarie viene da lontano. Quando non c’era l’energia elettrica, le luminarie erano a carbone oppure ad olio, montate sui pali di legno. Il vento faceva tremare la lampada, così quelle luci nel cielo sembravano più vicine alle stelle.
E non vi è nulla di strano in un’arte che adopera la luce come mezzo espressivo. Il fuoco redentore della chiesa che castiga e purifica si è emendato di tutta la sua forza eversiva ed è divenuto lumen, che amplifica gli spazi, che ne sottolinea la leggerezza, che li consegna al fascino dell’immaginazione. Come accade oggi in certe forme d’arte che manifestano tutta la loro forza espressiva nell’evento che realizzano.

Ecco, arrivati al dunque, non si può non pensare come il prima e il dopo di un paese siano invisibilmente uniti dalla pratica del vivere. Un filo sottile di conoscenze lega le cose che si ripetono nel corso del tempo. Il significato originario di certe azioni, degli avvenimenti ricorrenti, a volte si perde, altre volte si trasforma sino a diventare qualcosa di totalmente diverso. Sotto la crosta del presente, si muovono idee antiche, interpretazioni del mondo, paure e desideri collettivi che ancora ci influenzano. È per questa ragione che lo spazio che ci abita e in cui noi viviamo, non ci appartiene mai del tutto. Se poi le trasformazioni sono troppo veloci, come oggi, accade che l’idea che abbiamo del paese mediterraneo e salentino, coincide sempre di meno con la sua forma. Eppure la sua forma è la garanzia per la nostra identità. Trasformata certo, aderente al nostro tempo, ma non per questo meno urgente o creativa.


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