Agorafobia: primo consiglio imparare a respirare

Quando arrivi in ospedale e hai una figlia nuova inizi subito a capire che ti obbligherà a imparare a fare quello che non ti piace fare, e che hai sempre chiamato “quello che non sei in grado di fare”. Percorrendo il lungo corridoio color pastello dell’ospedale, a lunghe falcate, le braccia fremevano, ardevano pagaiare tra quelle pareti verde acqua. Bulimico di aria avvertivo una certa ebbrezza da ossigeno che faceva pendant con quel pavimento color argilla. Giunto nel reparto lessi la parola “ostetricia” come fosse una formula alchemica. Ma a quel punto avevo già riconquistato un ritmo respiratorio accettabile e che mi permettesse di entrare nella stanza.

Madre sua, padre suo, fratello suo, sorella mia, mia madre, zio mio, mio nonno e consorte, amica di lei di cui so solo il nome, mio amico di cui ricordavo in quel momento solo il nome, infermiera incarognita. Scorpacciata di ossigeno. Ebbrezza. Ecco cosa ho dovuto subito imparare a fare con mia figlia, a respirare. Ma a lei avevano dato uno schiaffo nel sedere per aiutarla mentre io dovevo trovare il modo da solo.

L’ossigeno, oltre a farmi vacillare, mi dava una scioltezza inattesa dai miei ospiti. Avevo imparato da tempo a far sembrare un sorriso quella smorfia sul mio viso fobico. Invece quello di Francesca era un autentico sorriso che si smorzava leggermente quando passava dall’incrociare gli sguardi dei parenti a intercettare quello di mia figlia nata solo 17 ore prima. Quello smorzamento rendeva il sorriso della ex puerpera, oltre che accogliente, pieno di pace.

Intanto il mio vocabolario cresceva ogni secondo in più. Colostro, reflusso, moncone, rooming in, mastite. Le parole nuove macchiavano di colore il fiume monocromo di parole di chi mi circondava e io cercavo di pagaiare senza perdere fiato e sperando di riuscire a mantenere il gommone in asse e con grande soddisfazione delle mie braccia…

Ognuno ricerca la sua esperienza di agorafobia

In questa senza di ossigeno avvertii una certa vertigine mentre una leggera aritmia si faceva cornice introducendomi all’agorafobia da ospedale. Non era una sensazione nuova. La riconobbi quel giorno cosi come la riconobbi 12 anni dopo. “Andiamo a fare una gita in montagna?!” Questa la proposta che farò una domenica di agosto a 2 mesi precisi prima del dodicesimo genetliaco di quella stessa figlia. Ma lei, la figlia adorata, mi farà, dopo tanti anni di fedele ammirazione, dono di un rifiuto che sarà preludio della fine di un’era. L’era attuale in cui sono un supereroe. Quel giorno tornerò misero e terreno ma anche libero. Mi dirà, placida ma dispiaciuta, che deve uscire con un’amica il pomeriggio. E il di lei fratello, il mio amato secondogenito le farà eco. L’ultimo nato non conta mentre conta la mamma che non avrà più lo stesso amore di 12 anni prima. Insomma deciderò di andare a fare un giro in moto, da solo, a circa 150 km, destinazione Civita di Bagnoreggio. Da anni mi ero detto che volevo visitarla. Un borgo sospeso a mezz’aria nel viterbese. Per raggiungerlo le foto in rete mostravano una passerella che non nascondeva in nessun modo la sua capacità, sua della passerella si intende, di indurre sindromi agorafobiche. Forse proprio per questo mi feci attrarre. Volevo incontrare Pan di nuovo… ne avevo bisogno.

L’agorafobia si scioglie col movimento

In moto la strada scorre come un lunghissimo toboga e io annuso l’aria avido di profumi. In genere rifletto sui massimi sistemi ma in quel pomeriggio agostano sfrutterò i km per scaricare di frodo i miei rifiuti psichici, così come farebbe un cargo carico di barili tossici della yakuza al largo del Giappone. Mi domanderò quanto realmente avevo voglia di fare quel viaggio da solo e mi risponderò, con l’avvicinarsi della destinazione, con sempre maggiore convinzione. Scoprirò piante, strade, borghi, un inaspettatissimo mohai nel mezzo delle colline viterbesi, e, infine, mi risponderò che ho fatto bene. Lo farò quando mi apparirà davanti quel piccolo paese arroccato su di uno sperone di roccia.

Un’isola che sembra stia lentamente affondando in un mare di tufo e argilla si staglierà davanti ai miei occhi, a appena a mezzo secolo dal suo definitivo affondamento. L’erosione implacabile segna un destino infausto per Civita, la morte. La guarderò da lontano come se stessi contemplando la nave dei folli che perde di galleggiabilità. Incrocerò di lontano gli sguardi dei radi abitanti che, consapevoli del destino, come passeggeri del Titanic preferiranno la gloria della morte eroica all’anonimato di una vita in un luogo qualsiasi. Osserverò quell’unica via d’accesso con timore reverenziale, quella passerella che già so mi ricondurrà a quella stessa ebbrezza da ossigeno che avevo oggi, giorno in cui sono diventato padre.

Infatti, mentre percorrerò la passerella, solindo e ciondolante, proprio a metà, nel mezzo del cammin di mia passerella quell’immenso spazio inizierà a dilatarsi. I pilastri di cemento piantati a terra diverranno corde di canapa pendenti dal cielo. L’oscillazione sarà accompagnata da un vento lieve ma incessante e la vista sarà quella che i fumi, se inalati, di quelle stesse corde di canapa donerebbero chimicamente.

Cosa è l’agorafobia

”Non so cosa… è come se avessi un po’ di giramenti di testa… come se fossero vertigini e mi manca un po’ il respiro. Le gambe sembrano essere cedevoli, non so cosa mi succede”. Sorriderò ascoltando le parole di quella giovane donna che mi precedeva di solo un paio di metri. Il suo primo incontro con Pan raccontato al suo fidanzato era il mio ennesimo. Riconoscerò tutti i sintomi. Io, tronfio dei miei lunghi incontri con Pan, continuerò a cavalcare quella passerella vertiginoso, senza fiato, con gambe cedevoli e mal di mare, ma senza scompormi. Non dovrò cercare di capire cosa succede. Non come oggi che sto imparando a respirare di fronte a quel piccolo essere che si pavoneggia per aver già imparato a sole poche ore dalla nascita.

Contemplando Pan e attingendo al mio vocabolario professionale penserò “attacco di panico con agorafobia, sintomi, significato e cura”. Attaccherò quella etichetta adesiva sulla schiena abbronzata di quella giovane e lo leggerò fino alla fine della passerella quando, degli scalini di tufo solidi e pietosi, faranno smettere di oscillare le mie gambe.

Come si cura

Dunque l’agorafobia ha a che fare con una passerella, col padre, col mare di argilla e con una città che muore.

La passerella  l’immagine psichica che ci indica come si stia vivendo un passaggio importante  da una fase della vita a un’altra. Due lembi di terra divisi vengono messi in comunicazione. A metà di questo passaggio ci viene a trovare Pan. Insomma Quando Pan arriva sappiamo che siamo già a metà del nostro percorso.

Le vertigini si curano col “Padre” ma quello con la “P” maiuscola, facendo ciò che deve essere fatto. Panico è sempre la visione del “Tutto”, e in quel “Tutto c’è anche quello che non vogliamo fare ma che un Padre, impietoso, ci costringerebbe a fare.

Argilla, terra, Madre terra ecco il secondo farmaco, “tenere i piedi a terra”, non usare l’immaginazione, fare e agire, toccare la materia, bloccare i viaggi nel tempo. Una Madre ci cura sempre fermando la nostra psiche nel qui e ora.

Infine la morte di una città… ossia la trasformazione della struttura delle case e dell’urbanistica, la trasformazione profonda del nostro modo di pensare, di provare emozioni di costruire sentimenti. Tutte cose che avevamo costruito su un terreno franoso. L’agorafobia non si cura consolidando la città, si cura accogliendone l’inesorabile destino e cercando nuove dimore dove crescere le proprie emozioni e i propri bisogni.

Ecco la cura! Quella stessa cura che ancora non conoscevo in quella corsia d’ospedale. Quella cura che nessuno mi insegnerà ma imparerò a mie spese tutte le volte che cercherò di ricostruire su di uno stesso terreno. Intanto mia figlia, sorridente, mi suggeriva con parole che fluivano dai suoi occhi, che non dovevo imparare a respirare, dovevo solo cercare di ricordare quello che avevo disimparato.

P.S. CLICCA QUI per leggere la pillola precedente: Paura di soffocare

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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