In attesa… dei pipistrelli

Ogni volta che sentivo pronunciare il mio nome ero certo che fosse giunto il momento del parto. E una donna, a ridosso del parto, chiama diverse decine di volte al giorno il suo compagno. Per questo il giorno stesso in cui avrebbe partorito io avevo già vissuto quel momento diverse volte. E ogni volta avevo avuto una reazione neurovegetativa che preludeva ad uno svenimento. Successe almeno in 15 occasioni.  Gli attacchi di tachicardia erano stati  sufficienti ad affrontare la nascita di non meno di 12 figli. Ogni donna si trova in difficoltà quanto un uomo ma continuerà a far finta che l’ansia sia solo la sua, cioè del suo compagno.

Poi il giorno arriva e intanto tu sei a lavoro. Lei si trova al consultorio per un controllo e le dicono di andare al pronto soccorso perché forse è giunto il momento. Il tracciato del bambino non lasciava dubbi, e il mio neanche. Lei, placida come se stesse andando a prendere un caffè con una amica, va in ospedale. Non si allarma, non mi chiama, non corre. Almeno così la ho immaginata. Penso che aver partorito la prima figlia al quinto mese, poi averla persa, la avesse anche illusa sul fatto che il parto fosse qualcosa di non troppo doloroso. Eccola dunque che va dal corriere espresso a prendere il pacco tanto atteso chiedendosi dove avrebbe dovuto firmare. La telefonata mi giunge una volta che si trova in ospedale. “Sono a sei centimetri” mi dice alla cornetta. Io Fingo di non capire. Vado di corsa all’ospedale e la trovo nel corridoio. Mi dice che mi ha aspettato prima di entrare. Poi entra, sorride, mi saluta e la porta a vetri mi lascia solo intuire la sua sagoma, goffa, che procede dietro al vetro opalescente, come in un quadro di Seurat. Si ora mi torna alla mente e il cellulare mi permette di ricordarlo, è “Donna seduta con il parasole”, mentre Francesca era in piedi e aveva il sole che la colpiva in pieno, radente si intrufolava sulla lunga finestra orizzontale. Intanto l’aria vespertina di ottobre mi ricordava di congedarmi dall’estate, oltre che dalla mia tardo adolescenza.

E da quel momento la mia immaginazione ricostruisce una storia di cui non mi sento degno in qualità di rappresentante del genere maschile.

Un pipistrello dentro casa

Erano circa le 10:30 di sera quando quel maledetto pipistrello si intrufolò nel nostro salotto. Un chirottero di piccole dimensioni che stava probabilmente collaudando il suo radar da non molto tempo. Aveva fatto sicuramente già qualche giro della stanza prima che mia sorella, poco meno che ventenne, se ne accorgesse. Chiara aveva sempre ostentato una certa sicurezza, si buttava dallo scoglio più alto, affrontava situazioni pubbliche con tracotanza, faceva gli esami senza far trapelare la minima tensione. Io, dal canto mio, avevo i miei talenti, anche se non sono di quei talenti che risultano andare di moda. Sono capace di leggere l’animo umano al primo sguardo. Emozioni, intenzioni, paure, debolezze, manipolazioni sono il mio vocabolario preferito ma questo non ha mai fatto di me un tipo alla moda o carismatico. Mia sorella era invece molto carismatica, se voleva fare una cosa bastava lo dicesse e tutti la avrebbero fatta.

Ma un pipistrello è ben altra cosa. Per questo quando lo vide saltò sopra alla poltrona e urlò: “Pipistrello!”. Fui piuttosto lesto nel capire la situazione e, vedendola fiondarsi nell’angolo del salotto e rannicchiarsi, non mancai di fare lo stesso. Lesti, goffi e risoluti, ci coprimmo con una la giacca di mia sorella che era rimasta sulla poltrona. Presi quella giacca col piglio di Neo  in Matrix. In posizione fetale, tutti e due. Certi che quel topo volante si sarebbe fatto beffe di noi.

Erano gli anni ’90, anni in cui era ancora in auge l’idea che un pipistrello aveva come scopo principale quello di infilarsi tra i capelli del solito malcapitato costringendolo, se mai se ne volesse liberare, a tagliarsi tutti i capelli. La paura dei pipistrelli veniva parificata a una chemioterapia. Per questo eravamo sotto la giacca di mia sorella e sbirciavamo per vedere cosa facesse e lui, il chirottero, che continuava a girare col suo radar da negozio cinese che gli impediva di ritrovare la finestra per andarsene.

Chiropofobia: paura dei pipistrelli?

Chiropofobia, ossia paura dei pipistrelli. La parola “chirotteri” è composta dal greco “cheir”, che significa “mano”, e dal termine “pteron”, che significa ali. Dunque è una paura delle mani che diventano ali. Sostanzialmente è come è la paura di imparare a volare, di imparare a crescere e di mettersi in contatto con elementi aerei, le immagini. Compare quando ciò che abbiamo sempre saputo, ma che abbiamo sempre sperato non avvenisse, invece avviene. Un po’ come quando si partorisce. Sappiamo che “tu donna partorirai con dolore” ma continuiamo a raccontare il parto in modo edulcorato e romanzato, in modo morbido e gentile. Invece partorire ha a che fare col morire.

Dunque io e mia sorella eravamo terrorizzati perché ancora speravamo che il crescere fosse una finzione holliwoodiana. 

Rimanemmo lì circa un quarto d’ora. Urlavamo verso di lui, il maledetto chirottero, indicandogli la finestra. Speravamo si dileguasse e con lui il suo messaggio. Poi ci colse la consapevolezza. Se noi non ci fossimo mossi saremmo potuti restare lì a lungo. Già vedevo i titoli dei giornali: giovani trovati morti di stenti nel loro salotto assediato da un pipistrello. Come dicevo è una paura che ha a che fare con la morte.

Scacciare un pipistrello

Il piano che decidemmo di mettere in atto era complesso. Saremmo strisciati fuori dalla stanza. Avremmo raggiunto l’ingresso dove avremmo trovato i caschi da moto di mia madre e di mio fratello che, maledetti loro, non si capisce dove fossero finiti quella sera. Poi avremmo indossato i caschi e, con le scope che erano nel ripostiglio, avremmo affrontato quel drago come fossimo San Giorgio in persona.

Una volta pronti rientrammo in salotto come fossimo l’avanguardia di una legione romana. Il pipistrello continuava a girare e noi iniziamo la nostra infinita e inutile battaglia per convincerlo a ritrovare la via di casa. Non riuscimmo a sfiorarlo e lui, il pipistrello, a sua volta non si fece sfiorare dall’idea di uscire. Le scope volteggiavano e i caschi, saturi di anidride carbonica, ci iniziarono a dare una certa ebbrezza.

Ad un tratto guardai mia sorella e, attraverso le visiere appannate scorsi il suo sguardo di congedo, come quello di chi sa che un meteorite sta per schiantarsi sulla superficie terrestre. Sapevo che c’era poco da fare. Lei comprese le mie intenzioni e si tese come una pelle di tamburo, sgranò le froge e mi vide slacciare il casco. L’ebbrezza da anidride carbonica mi diede il coraggio. Lo levai con lo stesso piglio con cui un astronauta navigato sa che l’ossigeno è finito e la morte è prossima. Ma poi? Poi magari scopre di riuscire a respirare su di un pianeta straniero anche senza l’ausilio del casco. Mia sorella attese di vedere se il pipistrello si fiondasse tra i miei capelli, e vedendo che respiravo e che il pipistrello non mi assaliva la chioma, si levò il casco anche lei.

Iniziammo ad aprire tutte le finestre senza curarci del chirottero che, quando ebbe deciso, con la stessa naturalezza con cui era entrato uscì. E noi continuammo a crescere.

Partorire un pipistrello


Similmente avvenne il parto della mia primogenita. Come del resto avverrebbero la maggior parte dei parti se ci si mette nella medesima predisposizione d’animo. Partorire è atto naturale e avviene qualsiasi cosa noi decidiamo di fare. Possiamo proteggerci, impaurirci o fare qualsiasi altra cosa, ma ciò che deve avvenire secondo necessità avverrà nel modo più semplice nel momento in cui accogliamo l’evento senza voler pensare che si riferisca a noi. Si perché un figlio, questo imparerò, difficilmente fa quello che ti aspetti quando glielo chiedi. Ti armerai, ti proteggerai ma lei, la prole disgraziata, lo farà solo quando, come un chirottero, sarà pronto. Ma, guarda caso, un figlio sarà pronto spesso proprio quando avremo accolto il fatto che non lo è. Questa è psicologia da chirottero.

Francesca mi raccontò che non avrebbe mai pensato fosse così. Aveva uno sguardo diverso. Da donna. Era cresciuta in un sol colpo di millenni e li riassumeva sia gli anni sia tutti i parti avvenuti fino a quel momento. “Ad un tratto…” mi disse “… ho pensato saremmo potuti morire sia io sia nostra figlia”.

Ma per fortuna il pipistrello è uscito, la paura è passata e lei si è concessa di crescere.

P.S. Clicca qui per leggere la pillola precedente

Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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