Amélie e gli archetipi

«Ebbene, dopo tutti questi anni, la sola persona che faccio ancora fatica a delineare è la ragazza con il bicchiere d’acqua. È al centro eppure… ne è fuori!»«Forse è solo diversa dagli altri?»
«E in cosa?»
«Non saprei…»
«Quando era piccola, lei non doveva giocare spesso con gli altri bambini… forse non ci ha mai giocato…»
(Dialogo tra Amélie e l’Uomo di Vetro)

Il film “Il favoloso mondo di Amélie” nasconde un messaggio profondo e poetico sulla condizione umana, un meritevole inno al problema dei rapporti umani, della soggettività e del dramma del confronto con gli altri.

Certamente, non possiamo pensare che l’intenzione di Jean-Pierre Jeunet fosse quella di lanciare un messaggio psicologico, ma senza dubbio con la sua storia, come ogni manifestazione artistica, ha saputo trasmettere qualcosa che va ben oltre una semplice fiaba moderna. L’analisi che propongo in questo breve articolo è ovviamente frutto della mia esperienza formativa, di antropologo della salute da un lato, e di sostenitore della psicologia archetipica dall’altro, ricordandoci ovviamente che ciò che stiamo analizzando è un film, e che non è la verisimiglianza ciò che cerchiamo, ma il messaggio nascosto nella sua poesia e simbologia.

L’immaginazione di Amélie

Non si parla di follia, di gravi “patologie” psicologiche, certamente. Amélie non è una matta, ma certamente è un personaggio eccentrico, diverso dalle persone comuni, che presentano atteggiamenti prevedibili dalle regole sociali, e dunque considerati normali. Ciò che distingue Amélie è anche ciò che la rende un personaggio così apprezzabile agli occhi del pubblico, perché è facile identificarsi in lei, riconoscere le sue paure e le sue difficoltà. Amélie vive intrappolata in un mondo che rifiuta la sua sensibilità, la sua soggettività, la sua autenticità, ma che a differenza dei molti “sani” che lo popolano, non è riuscita a reprimere queste cose dietro una maschera di convenzioni, e questo la rende isolata, estranea, e ovviamente sofferente per la sua incapacità di stringere un legame autentico.

Ciò che è interessante del film, è che la storia di Amélie può essere letta anche in chiave di analisi psicologica della soggettività. Il suo profilo ci viene fornito dal narratore all’inizio: il padre era un medico militare e la madre una maestra dalla personalità instabile e nervosa che non apprezzava il contatto umano. Il padre di Amélie non tocca mai la figlia se non per il controllo medico mensile, e la bambina ha ogni volta il batticuore. Il padre, credendola malata di cuore, la rinchiude in casa peggiorando di fatto ancora di più il problema della figlia. La madre la educherà in casa imponendole un metodo severo e oppressivo, soffocante per la sua soggettività. Amélie si rifugia quindi nell’unica cosa che non può essere controllata: l’immaginazione. Il pesce domestico, unico amico di Amélie, è solito saltare fuori dalla boccia per sfuggire dal clima insopportabile di quella casa, così la madre decide di liberarsene. Il tema del film, come vedremo, sembra molto affine a quanto Jung scrive in un noto passo del Liber Novus, un insegnamento sull’individuazione che non possiamo dimenticare.

«Tu non devi intervenire sull’altro, ma su di te, a meno che l’altro richieda il tuo aiuto o la tua opinione. Comprendi tu quello che l’altro fa? Da dove ti viene il diritto di avere opinioni sugli altri o di agire su di loro? Tu hai trascurato te stesso, il tuo giardino è pieno di erbacce, e tu vuoi insegnare al tuo vicino l’ordine e fargli notare i suoi difetti!» (C.G. Jung, Libro rosso)

 

Amélie continua a crescere da sola, ma nonostante la sua vulnerabilità, di cui si approfitta un vicino sadico, Amélie mostra una gran forza d’animo. I drammi però non sono finiti, e un giorno, ironicamente, la madre di Amélie viene uccisa schiacciata da una donna che si stava suicidando. Ciò provoca una maggiore chiusura del padre, e Amélie «preferisce sognare una sua vita in attesa di avere l’età per andarsene» da un mondo che le sembra sterile.

Altri personaggi della storia di Amélie sembrano essere parodie di problemi psicologici comuni, come Georgette, che probabilmente è ipocondriaca: il narratore la definisce “malata immaginaria”.

Anche da adulta Amélie ha conservato la sua poetica stravaganza che manifesta in piccole abitudini dal significato soggettivo, come infilare la mano in un sacco di legumi, rompere la crosta della créme brulée e giocare a far rimbalzare i sassi. In casa vive una vita tranquilla, ma qualcosa, la morte di Lady D., stravolgerà la sua routine. Amélie ha il bisogno di ritrovare quel contatto umano che non ha mai potuto sviluppare, ma al tempo stesso non può rinunciare alla sua soggettività, nascondendosi dietro una maschera che le impedisce di essere sé stessa. Con il ritrovamento, nella sua stessa casa, di una scatola di ricordi appartenenti ad un bambino vissuto lì decenni prima, Amélie si convince di fare un tentativo: «ritroverà dovunque sia il proprietario della scatola dei ricordi, e gli restituirà il suo tesoro; se la cosa lo colpisce, lei ha deciso, comincerà ad occuparsi della vita degli altri, altrimenti tanto peggio». Amélie ha quindi una vocazione, una spinta verso l’altro, ma come molti dotati di una soggettività forte e che per questo soffrono incomprensioni comunicative, Amélie sente di poter arricchire sé stessa, e comprendere meglio anche l’altro, solo se gli offre un supporto, un aiuto. Ha bisogno di sentirsi in qualche modo di sostegno, e di sanare le sofferenze altrui così da capire meglio anche la propria.

Dopo aver avuto successo nella sua missione, Amélie si sente felice, e bisognosa di aiutare l’umanità intera. In una scena commovente, lei si lancia a fare la guida di un cieco, che dopo essersi congedato da lei avrà una specie di elevazione. Nel corso della sua ricerca, Amélie incrocerà diverse persone, e sentirà le loro storie tristi, impatterà con la loro vita sofferente, o sarà irritata dai loro comportamenti scorretti, e si ingegnerà come possibile per aiutare chi sta male a ritrovare la felicità, anche se con l’inganno, o punire chi se lo merita.

Amélie e la psicoanalisi

«Strana la vita… quando uno è piccolo il tempo non passa mai, poi da un giorno all’altro ti ritrovi a cinquant’anni. E l’infanzia, o quel che ne resta è in una piccola scatola, che è pure arrugginita. Lei ha già dei figli signorina? Io ho una figlia che avrà più o meno la sua età. Sono anni che ormai non ci parliamo. Sembra che abbia avuto un figlio, un maschio, si chiama Lucas. Beh direi che sarebbe ora di andarli a trovare prima di finire in una scatoletta a mia volta. Lei non trova?» (Dominique Bretodeau dopo aver ritrovato la scatola grazie ad Amélie)

La figura dello psicoanalista nel film di Amélie è rappresentata da “l’Uomo di Vetro”, un personaggio enigmatico e molto particolare. Il rapporto tra Amélie e questo homme de verre imita molto quello di una seduta psicologica. L’analisi avviene attraverso la proiezione della storia della protagonista su una tela, La Colazione dei Canottieri, che l’homme de verre ridipinge ogni anno, in quello che potremmo definire un percorso introspettivo che passa attraverso l’arte. Amélie si identifica con la ragazza al centro del quadro, che sorseggia un bicchiere d’acqua e pur essendo circondata da molte altre persone, con lo sguardo è assente, presa dal suo mondo. Lei è aliena alla comunità che la circonda, e dunque anche se fisicamente presente, è confinata nel suo mondo, poiché il su linguaggio e le sue emozioni, non sarebbero comprese dagli altri.

Anche l’homme de verre è come Amélie anche se per ragioni diverse, la sua malattia rara, anche lui ha vissuto tutta la vita chiuso in casa, ma ha saputo costruirsi comunque dei rapporti di amicizia, come il fruttivendolo, anche lui aiutato psicologicamente dall’homme de verre a superare la paura di farsi valere di fronte al suo capo.

La sera del suo successo però, Amélie, tornata a casa, guarderà dalla finestra la solitudine dall’homme de verre che mangia silenzioso. Lei avrà l’impulso di unirsi a lui, ma sarà sopraffatta dalla rabbia, offesa dalle accuse che sentiva mosse verso la ragazza col bicchiere d’acqua, in cui lei si identificava. Quella sera, Amélie immaginerà il suo futuro, una vita passata a dedicarsi agli altri, ma mai a sé stessa, e dopo tante fatiche per combattere la miseria umana, senza neanche una gratificazione, morire sola, e comunque incompresa. Ancora una volta, la sua soggettività si esauriva proprio nel suo tentativo, riconosciuto come vano, di farsi accettare dagli altri. Come scriveva De Martino ne La Fine del Mondo: «Non potrebbe qui essere meglio reso il vissuto di fine del mondo come vissuto della perdita della intersoggettività dei valori che rendono un mondo possibile come mondo umano» (pag. 50).

Amélie tornerà spesso a trovare l’homme de verre per parlarle dei suoi problemi, e con l’occasione tornerà a parlare spesso della ragazza col bicchiere d’acqua. Quando Amélie avanza l’ipotesi che la ragazza sia distratta perché sta pensando all’amore, o a dedicarsi a risolvere i problemi degli altri, l’uomo di vetro le fa notare che così facendo si isola ancora di più, perché nessuno penserà ai suoi di problemi. Amélie risponde che è meglio consacrarsi agli altri che a un nano da giardino, frecciatina velata a suo padre, che ultimatamente si interessava più a quel cimelio che alla figlia. Per spingerlo ad aprire gli occhi e a muoversi da quella casa dove si è rinchiuso, Amélie ruba il nano da giardino, e complice la sua amica hostess, fa ricevere al padre foto di lui in visita in giro per il mondo.

«Allora è… è l’altro, il tizio che alza la mano?»
«Sì»
«Ah, lei è innamorata di lui?»
«Sì»
«Beh credo sia venuto il momento per lei di correre davvero il rischio.»
«Ci sta pensando. Sta escogitando uno stratagemma…»
«A lei piacciono molto, gli stratagemmi!»
«Sì…»
«In effetti è un po’ vigliacca. Credo sia per questo che non riesco ad afferrare il suo sguardo…» (L’Uomo di Vetro e Amélie mentre analizzano il quadro)

Lo psicoanalista-uomo di vetro capisce che Amélie è la ragazza con il bicchiere d’acqua, e capisce anche che l’amore che lei cerca è ciò che può aiutarla ad aprirsi, e così la spinge a buttarsi a provarci con un altro ragazzo che “vive in un mondo tutto suo”. Così, Nino, il ragazzo strano come lei, e Amélie, iniziano una complicata relazione indiretta, fatta di messaggi e giochi comunicativi che gli permettono di comunicarsi senza però vedersi mai in faccia. Alla fine, quando dopo tante peripezie Nino riesce a risolvere tutti gli enigmi, i muri comunicativi che gli ha imposto Amélie, e riesce a trovarsi davanti a lei, Amélie, spaventata, finge di non conoscerlo.

Conclusioni

L’homme de verre, che dietro le quinte è riuscito a seguire, spiandola dalla finestra, tutte le mosse di Amélie, le fa avere un messaggio registrato, in cui la incita a superare le sue paure e confrontarsi con il mondo. Alla fine però, anche se con i suoi stratagemmi, Amélie riesce ad aprirsi al mondo senza forzare la propria sensibilità reprimendosi, ma grazie all’aiuto di persone che hanno saputo comprenderla ed entrare in sintonia con lei, aiutandola a superare degli ostacoli posti dalla vita.

P.S. CLICCA QUI per leggere le altre analisi archetipiche cinematografiche

Info sull'autore

Federico Divino

Antropologo e Linguista, specializzato in Antropologia della salute mentale (etnopsichiatria). Ha compiuto un percorso di formazione personale in psicoanalisi.

Vedi tutti gli articoli