La funzione psicologica degli artisti di professione

Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista (San Francesco d’Assisi)

È tempo di bilanci. Immersi ormai nella Fase 2, ci siamo abituati a sentire parlare di numeri. Numeri di contagiati, guariti e vittime. Numeri di possibili finanziamenti o sostegni alle famiglie. Numeri che chi ci governa butta nero su bianco o in diretta (tv o social, poco importa), per provare a sostenere determinate categorie. Questi numeri sembrano voler essere come salvagenti per far sentire tutti noi meno in balia di un mare in tempesta. Non mi interessa soffermarmi su quanto e se questi numeri riescano nel loro intento. Mi interessa guardare a un bilancio intorno a una frase che ha fatto discutere. Una frase sul mondo dell’arte pronunciata dal Premier nell’illustrare le nuove misure di sostegno al reddito. “Gli artisti ci fanno tanto ridere”. L’arte è un tema intimamente connesso al mondo dell’anima, alla psiche. E dietro la frase “gli artisti ci fanno tanto ridere”, ci sono tanti punti di vista psicologici da cui osservare.

Il limite della risata 

L’arte deve confortare il disturbato e disturbare il comodo (Banksy)

Non so se qualcuno di voi ricorda la scena de “Il nome della Rosa”, in cui un monaco benedettino additava la risata come un rumore maligno, come un verso così lontano dalla presunta purezza dello studio tipico dei monaci benedettini nel medioevo. Ridere è un’azione controversa. Ridere di gusto è un comportamento liberatorio, ma, allo stesso tempo, un’azione che attiva diverse sfere del nostro corpo e della nostra anima. Ridere a crepapelle e ridere fino alle lacrime sono espressioni di complessità apparentemente opposte. Ridere e morire, ridere e piangere, sembrano frasi stonate. Eppure indicano quanto può essere impegnativa questa reazione. È utile che la risata è una reazione a qualcosa o qualcuno. Non è possibile ridere senza uno stimolo. Ci può far ridere un ricordo. Ci può far ridere una scena buffa. Ci può far ridere una barzelletta. E ci può far ridere anche l’arte. Tuttavia, non tutta l’arte è stata creata per ridere. L’arte esiste di per sé e genera reazioni di varia natura.

È un caso che Totò, il cosiddetto “principe della risata”, viene descritto come un uomo molto triste nella propria vita quotidiana?

È un caso che Stanlio e Olio o Charlie Chaplin, tra gli artisti più famosi del cinema in bianco e nero, pur avendo fatto ridere intere generazioni, hanno vissuto vite con ben poco da ridere?

Oppure, è sufficiente mandare un pensiero alla storia di Robin Williams. Lui che ha recitato in capolavori di intrattenimento, di riflessione e di risate e che si è suicidato.

Ridere non è un’azione semplice. Far ridere lo è ancora meno.
Gli artisti che riescono a far ridere creano uno spazio sacro e magico. Disegnano uno spazio di mondo dove non esistono più, per un periodo limitato di tempo, le nostre preoccupazioni. Quante volte vi è capitato di scegliere un film comico “per non pensare”? Quante volte abbiamo scelto di assistere a una commedia per “distrarci un po’”? Ci sono anche le risate di satira e di contestazione. Ci sono le risate per far riflettere. Tutta la saga di Fantozzi, per quanto ascrivibile al genere di commedia – ovvero film per fare ridere -, ha generato una critica sociale e una riflessione profonda sul piccolo uomo borghese della fine del vecchio millennio, inserito in dinamiche così lontane dalla realtà di ogni giorno.

Sì, l’arte fa anche ridere, ma non è possibile limitarsi a una risata.

Arte in contestazione 

Un bravo artista è destinato ad essere infelice nella vita: ogni volta che ha fame e apre il suo sacco, vi trova dentro solo perle (Hermann Hesse)

Nei secoli bui, i fondamentalisti cattolici eviravano le sculture maschili o, quantomeno, nascondevano il membro sotto improbabili aggiunte, come la foglia di fico. Karol Woytjla, durante la Seconda Guerra Mondiale, prima di entrare in seminario, collaborava con gruppi di teatro clandestino come forma di resistenza. Molti detenuti nelle più disparate prigioni, perfino nei lager nazisti, hanno raccontato che hanno potuto difendere la propria umanità perché avevano scolpite bene in mente versi di poesie o di canzoni, che ripetevano a se stessi e agli altri, ogni volta che rischiavano di perdere l’ultimo scintilla di vita.

Nessuno potrebbe mai mettere in discussione la funzione umana dell’arte, in ogni sua forma. Basti pensare che l’umanità ha avuto da sempre bisogno di raccontare le proprie avventure sin dai tempi della preistoria, con i graffiti. Prima ancora che nascesse l’arte ufficiale, prima ancora della storia, l’umanità si disegnava sui muri. E quei graffiti sono globalmente conosciuti come una prima forma di arte.

Sì, perché l’arte ha camminato di pari passo con la storia dell’uomo. E gli artisti hanno da sempre una incredibile responsabilità. Se gli uomini della preistoria raffiguravano scene di vita, lo facevano per raccontare loro stessi. Per condividere le loro storie e, magari, lasciare e condividere un insegnamento.

L’arte, già da allora, aveva la sua natura. L’arte già dalla preistoria era il percorso principe per portarci dentro noi, faccia a faccia con la nostra anima.

L’arte è in rivolta perché, anche durante il Mecenatismo, era ribellione. Sempre ne “Il Nome della Rosa”, un monaco, per quanto inserito in un contesto rigido e con regole ferree, disegnava vescovi e cardinali con le teste di asini e di maiali: una provocazione satirica; una ribellione “silenziosa”.
L’arte è in rivolta costante, con se stessa, con il sistema, con il mondo, perché l’arte, anche nell’apparente delicatezza di un’opera lirica o in balletto di danza classica, urla. Urla il sacrificio delle donne e degli uomini che le danno forma. Urla la scalata che bisogna attuare per raggiungere un palcoscenico o un museo o una casa discografica. Urla perché troppo spesso gli artisti non conoscono riconoscimenti in vita.

Ecco un’altra radice tremendamente psicologica dell’arte: l’immortalità – la vera vita dell’arte – la si raggiunge solo con la morte.

Pagare l’arte 

L’artista è un ricettacolo di emozioni che vengono da ogni luogo: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una forma di passaggio, da una tela di ragno (Pablo Picasso)

Pirandello attuò una rivoluzione incredibile: nei suoi spettacoli teatrali, le attrici e gli attori dovevano rompere il muro del palcoscenico. Iniziavano a scendere in platea, lasciavano il recinto sacro e sicuro protetto dal sipario.

Per secoli l’arte è stata considerata come una forma di peccato, come una fonte di perdizione e di distrazione non controllata. Per questo in tante epoche storiche si sono messe in pratica innumerevoli forme di censura. La Traviata, ad esempio, per decenni è stata vietata agli spettatori cattolici. Nei Paesi sotto totalitarismo c’è una censura ufficiale e ufficiosa che filtra i contenuti artistici che il popolo può guardare. L’arte in vita non può essere democratica. Non nella sua nascita. Non nel suo percorso di ascesa verso la notorietà. Tanti di noi disegnano arte, ma non si possono definire “artisti di professione”. Disegnano e creano arte per passione, per pensare, per guardarsi dentro. Tante colleghe e colleghi fanno creare arte ai propri pazienti. Tanti di noi cantano sotto la doccia, scrivono un diario, disegnano o scarabocchiano fogli. Ma non ne hanno fatto una professione.

C’è chi, invece, per scelta, per passione e per talento, hanno reso la propria passione un’arte. E attraverso quella raccontano storie, disegnano emozioni, regalano esperienze a un pubblico. E, giustamente, chiedono la dignità di vedere riconosciuto questo immenso lavoro. Un lavoro più potente di molti trattamenti. L’arte ha una potenza di anima, di ombra e di luce. L’arte può far ridere. Può assolverci dai nostri pensieri. L’arte può far pensare. L’arte aiuta ad amare e, forse, ad amarci. L’arte può essere un’arma di lotta, di guerra e di ribellione. L’arte è passione. Ma è anche un lavoro per “gli artisti di professione”.

Conclusioni

Esistono due modi per non apprezzare l’Arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità (Oscar Wilde)

Dire che gli artisti meritano di essere inclusi nel comparto produttivo di un Paese è un errore, che può essere letto come un oltraggio. Una frase, seppure inserita in un discorso complesso e articolato e pronunciato nell’ennesima conferenza in un clima di cambiamento epocale e tragico, può causare conseguenze importanti. Agli artisti di professione va il riconoscimento di una funzione lavorativa tanto estesa da essere indefinibile. Agli artisti, amatoriali e di professione, tutti quelli che amano l’anima e la mente devono riconoscere una funzione ben precisa: sono i primi aiutanti per tutte le sfumature di ciò che siamo, dall’urlo al silenzio.

P.S. CLICCA QUI per leggere l’articolo sull’ultima opera di Banksy

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Info sull'autore

Teresa Di Matteo

Psicologa, Psicoterapeuta in formazione

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