L’infodemia: siamo come un virus

Quarantene, restareacasa, isolamento. Ma la solitudine non dovrebbe essere definita come isolamento sociale. Possiamo, infatti, stare fisicamente soli e non avvertire alcun senso di solitudine. La solitudine, quella vera, quella che ci stringe alla gola e ci leva il respiro, ha poco a che vedere col non avere nessuno intorno a noi. Allora potremmo definire la solitudine non tanto come l’assenza di persone più o meno care intorno a noi, quanto come la nostra assenza nei pensieri degli altri. Sembra una questione di lana caprina, invece questa è una delle esperienze più faticose che possiamo transitare come mi raccontò una volta un paziente con una storia di reale solitudine. Adottato a circa sei anni, sradicato, cambiato nome e alla fine ripudiato dai genitori adottivi. Non che fosse uno stinco di santo ma “Dottò…” mi disse “… il problema è che se non sto nella testa di nessuno allora so guai”. Gli occhi scuri e penetranti mi lasciavano una responsabilità enorme, quella di pensarlo, come se il mio pensarlo lo tenesse in vita. Insomma mi insegnò che noi esistiamo nella misura in cui siamo pensati, siamo presenti nella psiche degli altri.

#IORESTOACASA

Perché dunque resistiamo così tanto all’invito a restare a casa?

C’è un virus, c’è un rischio oggettivo. Si, è vero, la pandemia e l’epidemia devono fare il loro corso  come dicono gli inglesi, ma perché tanta paura a restare a casa? Sembra che la paura della letalità del virus, per altro bassa, non raggiunga il livello di paura che abbiamo nel restare a casa. Sembra che i provvedimenti del governo ci fanno affacciare ad un immaginario terrifico. La quarantena ci invita a fare l’esperienza, seppur solo fantasticata, di non esistere nei pensieri di nessuno. Allora eccoli quei flashmob posti in rete, quegli strenui tentativi di non essere dimenticati, quel tentativo che l’immagine di noi non cada nell’oblio.

Narcisismo da quarantena

Ma non ci confondiamo con chi fa di quei flashmob la sua inflazione. Non ci confondiamo con chi tende a fare della quarantena l’ennesima occasione di rilancio mediatico, di click, di contatti. Anche questo articolo rientra in quei tentativi e si nasconde tra i colloqui gratuiti, tra il supporto psicologico gratis, tra le canzoni cantate alla finestra dai cantanti, tra i video dei comici. Insomma la solitudine non è un merchandising, piuttosto ne è la linfa. E la bontà di chi canta, suona, ci ascolta è la droga di più largo abuso in questi tempi nefasti. Io e tutti in rete vogliamo legarvi a noi, al nostro prodotto ossia al fatto che non cadrete nell’oblio.

L’infodemia è un sintomo di solitudine

L’infodemia è la pandemica diffusione di canali di comunicazione che esponenzialmente twittano, postano, istagrammano, pinterestano informazioni relative al virus con la corona. Noi blog di nicchia ne facciamo le spese maggiori ma anche altre notizie importanti si perdono travolte dallo tsunami di articoli sul virus. Così i profughi siriani sono soli e molti fatti possono accadere con la disattenzione di tutti. Anche Greta e Joker avevano creato un’onda infodemica ma molto meno devastante e duratura. Ma non tiriamo le somme troppo presto… le informazioni sul virus non diventano epidemiche per la paura della morte che il virus porta. Lo diventano perché il meccanismo, più subdolo e strisciante, legato alla paura della solitudine ci spinge ad accendere quel maledetto tv o il cellulare. Per comprendere l’infodemia dobbiamo smettere di osservare gli effetti della paura della morte, dobbiamo piuttosto chiederci cosa ci spinge ad andare in rete.

La compulsione da social: #Achillerestaacasa

Ci sono momenti in cui ci ritroviamo soli. Sul divano, sul sedile dell’auto, camminando per strada, sui mezzi pubblici. Un tempo avevamo una certa capacità di restare nelle nostre reveriè, oggi compulsivamente avvertiamo il vuoto e in noi si affaccia il timore di non essere nei pensieri di nessuno. La paura che l’immagine di noi non esista nella mente di nessuno ci spinge a impugnare il cellulare. Solo dopo che lo abbiamo riacceso e ci siamo connessi, solo allora rispuntano le paure collettive condivise. Una volta in rete, una volta che ci siamo connessi, la paura della solitudine cede di nuovo il passo a quella della morte. E, facciamo attenzione, la paura della morte è sempre meno virulenta di quella della solitudine. Anzi spesso ci immoliamo e rischiamo la vita proprio per rimanere nei ricordi della collettività. Insomma se vuoi uccidimi ma non mi dimenticare! Similmente Achille sceglie, su richiesta della madre Teti, una vita breve e una morte gloriosa contro una vita lunga ma destinata a essere dimenticata. Insomma Achille non resta a casa. L’eroe, l’Io non resta a casa.

Morte dell’eroe

Allora come fermare l’infodemia? Come convincere Achille? Basta non agire sulla paura della morte ma su quella della solitudine. La paura della solitudine  è quella che ci spinge a impugnare il cellulare e andare in overload information. La paura della morte è quella che ci fa scegliere quali notizie scegliere. Dunque, detto questo, basterebbe comprendere un fatto, ossia che ognuno di noi esiste in immagine nell’inconscio collettivo senza che noi ci impegniamo troppo. I sogni sono popolati da una quantità di sconosciuti enorme. Ogni sconosciuto è l’immagine di qualcuno e ogni qualcuno è l’immagine di uno sconosciuto che giunge nei sogni. Insomma non vi dimenticheremo e non mi dimenticherete. Similmente Paride, il vigliacco che resta a casa durante la guerra, è famoso e, udite udite, è lui che uccide Achille.

La quarantena è psicotica

Un secondo motivo per cui si ha paura di stare a casa è invece legato al fatto che, in assenza di stimoli, la psiche ne inventa. Se volete potete provare. Vi mettete in una stanza vuota, con pareti bianche e sguardo fisso. Dopo una decina di minuti inizierete ad avere acufeni e macchie di colore. Nel giro di un ora di deprivazione sensoriale potreste avere vere e proprie allucinazioni. Una parte di noi conosce questo meccanismo e lo evita come la peste o come il virus, anzi più del virus. Per questo vogliamo uscire a tutti i costi. La psiche è immagine ma ha un profondo bisogno di materia su cui proiettare quelle immagini per non ritrovarsene invasa, la psicosi, appunto, l’osi, ossia l’eccesso di psiche, ossia di immagine. Dunque l’idea di rimanere a casa nasconde l’infausta condizione della follia in cui le immagini si esprimono senza avere una materia in cui incarnarsi. E questa, la follia, ve lo assicuro, è un’esperienza devastante al punto di rendere sostenibile anche la morte stessa.

L’infodemia cura

L’infodemia in tal senso cura. Come per l’ossessivo per cui il lavare le mani e i riti sono come le mattonelle che posa sul terreno su cui deve camminare, allora stessa cosa fa la compulsiva presenza  delle informazioni. Ci permettono di mettere un piede davanti all’altro fugando la paura della morte dopo che per la paura della solitudine abbiamo impugnato quel maledetto cellulare. Ma, aprite bene occhi e orecchie, il virus, fa la stessa cosa ma con noi. Anche il virus usa i nostri corpi, salta da un corpo all’altro per restare vivo, fa dei nostri corpi le mattonelle su cui camminare per procedere. Insomma, allora non siamo tanto diversi noi da lui e per certi versi funzioniamo così nella psiche così come sul modo in cui usiamo e abitiamo questa grande astronave che si chiama pianeta terra.

Greta e il virus

Insomma è ormai chiaro… Greta non vali granché. Un virussetto ha ridotto l’inquinamento semplicemente facendosi una passeggiata mentre tu vai in giro come una trottola e invece? Niente. E se questo virus fosse come la coda del cavallo che scaccia le numerose mosche cavalline che abitano la sua groppa? Se fosse proprio Gea che stesse cercando di ridurre l’inquinamento e i sintomi della malattia che la attanaglia che si chiama specie sapiens sapiens? Non è una domanda nuova, ma si impone prepotentemnente oggi, e se fossimo noi il virus e il virus fossero gli anticorpi? Nell’immensità del cosmo, se riuscissimo a far perdere la fallicità ad Achille, se riuscissimo a moderare l’eroismo dell’IO, allora potremmo riscoprirci inglesi, anzi post-inglesi. Questo nel senso che non accoglieremmo l’idea di perdere i nostri cari, piuttosto accoglieremmo l’idea che la nostra specie deve estinguersi. Ma un ultima riflessione…

Isolamento sovraffollato

Poi ti ritrovi a casa. Ma sia chiaro a te capita solo ora nel fine settimana. Si perché magari sei uno psicoterapeuta e devi garantire continuità alle terapie e vai a lavorare, autocertificazione alla mano. Ma magari dirigi anche una struttura residenziale per dipendenze patologiche e devi dare continuità assistenziale. Allora vai, mascherina, gel e via! A rischiare che il virus ti prenda. Ti senti come mel gibson in Mad Max. E questo rischia di diventare erotico a tratti mentre tu, solo a tratti, ti accorgi di essere imbecille a sentirti cosi eroico. Poi torni e trovi la mamma dei tuoi figli, la vera eroina di casa, che chiusa in 90 metri quadri, che non sono neanche pochi, trattiene, intrattiene, contiene tre bambini la cui energia deflagrante non trova vie di sfogo. Tu rientri e ti aspetti che ti facciano una òla mentre è solo giunto il momento che cerchi di dare tregua alle urla scoordinate di un isolamento demograficamente paradossale.

La terza paura del restare a casa

Allora eccola la terza paura è quella non della solitudine quanto quella della convivenza forzata. Anime i cui spazi e momenti di incontro erano scanditi da ritmi piuttosto dilatati si ritrovano a vicinanze inconsuete. E in questa clausura succedono cose strane. Succede che coppie amorose si separano e coppie disastrose si riconciliano. Succede che scopri che tuo figlio disegna e che ti ritrovi a suonare con tutti e tre dalla finestra, succede che ti ritrovi a chiamare e a tenere contatti con persone che non avresti mai chiamato, succede che i soldi non arrivano ma ti accorgi che se non c’è niente da comprare va bene anche così, succede che fai un dolce e che tua figlia ha imparato a fare il purè. E, infine succede, che i figli ad un tratto, mentre scrivi al pc, sono al tavolino che avidamente leggono, scrivono, o guardano videolezioni col piglio calmo di chi ha un profondo bisogno di andare a scuola.

Non so

Non so cosa accadrà. Sono talmente folle da aver mentalmente vissuto di tutto. La mia morte, quella dei figli, quella della mia compagna, dei parenti… l’ho immaginata perché io sono il protagonista di quanto sta accadendo… maledetto narcisismo. Ma poi penso che a me, solo perché sono figo, il virus mi ha già preso e lo ho battuto. Intanto mi lavo le mani e porto nel cinturone lo spruzzino con l’alcol e intrasento il vago piacere delle carezze calorose che ci offre l’ossessività. Dopo programmo ansiosamente come e cosa comprare per fronteggiare la crisi e metto il corona virus in coda dicendogli che è inutile che spinge, si perché prima di lui ci sono sclerosi, tumore e infarto tra le mie fantasie. E, infine, mentre mi chiedo paranoicamente perché i russi, senza casi, abbiano inventato il virus commissionandolo ai cinesi, scrivo questo articolo col piglio di un joker che, psicopatico come è, freddamente osserva il mondo intorno a lui senza vedere persone ma mezzi per raggiungere i suoi obiettivi. Fortuna che li vedo tutti e che non agiscono come un tutt’uno perché il tutt’uno è sempre e immancabilmente il buon caro e vecchio dio Pan che, in barba a Plutarco, mi sembra tutt’altro che morto.

Comunque noi speriamo che ce la caviamo… ecco questo è il finale dettato dal me superstizioso che mostra rispetto al virus come se fosse un dio che si arrabbia se sei tracotante. Buona clausura a tutti.

P.S. CLICCA QUI per leggere Corona Virus: guariti 800mila ipocondriaci

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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