Il ricordo dimenticato

 

Magari vado a un ricevimento o a una riunione, e sento ogni sorta di cose, ma quando ne parlo con mia moglie ricordo soprattutto quello che ho detto io. D’altra parte come analista, piuttosto incredibilmente, sto attento dall’inizio alla fine della seduta; ascolto tutto. Rammento le immagini e i sogni che un paziente mi ha descritto anni prima. Mi riesce naturale perché mi da gioia (J.Hillman in “il Linguaggio della vita”)

 

Il ricordo che ho dei racconti dei pazienti è un ricordo monco di ciò che non ricordo.

Hillman ha fatto troppo poco l’analista per dire che ricorda perché gli da gioia. In verità un terapeuta dimentica e lo fa talvolta abilmente, goffamente talaltra. Nei suoi silenzi spesso non vi è una conoscenza celata ma un’ignoranza legata alla distrazione, alla noia, alla paura o a qualsiasi aspetto che giustifichi l’oblio di alcune parti del racconto.

A volte anche il nome del paziente sfugge. Come un atto mancato il paziente inizia a chiamarsi con i nomi di tutti gli altri pazienti. Intrusivamente posso trovarmi invaso da preoccupazioni per i figli o per altri pazienti e vitreamente fissare l’occhio sul corpo seduto sul divano di fronte a me. Oppure non ricordo un suo sogno o magari lui o lei non ricorda un suo sogno che invece ricordo io. Sono giunto a dimenticare anche che il paziente mi stava aspettando davanti allo studio e, fidatevi, non fidatevi di chi nega questi atti mancati.

A che serve il ricordo mancato?

Comunque in quel silenzio, un tempo, escogitavo strategie per ricostruire i fatti, i nomi, gli eventi. Sapiente, usavo le pause per far riempire i vuoti dal paziente che, pietoso, lo faceva dandomi ordinatamente le informazioni che la mia psiche aveva sapientemente obliato.

Poi ho pensato: quale telos, quale scopo avrebbe mai un medico di celare un suo male di fronte a un paziente? Un oncologo negherebbe di avere un cancro a quale scopo? Probabilmente questo risponderebbe solo a esigenze del medico e non del paziente, esigenze come far finta di nulla rispetto alla propria caducità e fallibilità. Il corpo è un grande amico, ci mostra sempre chi siamo. Insomma ad un certo punto mi sono arreso e ho gettato la maschera. Lo dico, lo ammetto e lo rendo disponibile. Dico al paziente che non ricordo, che mi ero distratto o che mi stavo assopendo. Mostro la mia caducità e, al contempo, la sua. E sono pronto ad assumermi l’onere della colpa. Decisi di fare così quando scoprii che il secondo dono di Prometeo fosse proprio l’Oblio (sembra inoltre che donò anche la mantica e la ieromanzia ossia la lettura delle viscere). Dunque se è un dono deve per forza avere una sua utilità. L’oblio questo illustre dimenticato.

Mnemosine

Tanto ho scritto e pensato sulla memoria, quella dea Mnemosine che congiungendosi a Zeus generò le Muse, quelle arti da cui ogni racconto nasce. Noi siamo ciò che siamo solo grazie a loro. Possiamo raccontarci solo per merito delle figlie di Mnemosine. Insomma la memoria sembra un’opera artistica piuttosto aleatoria.

Che buffa dea! Credo che debba per forza avere una funzione evolutiva, se la selezione naturale l’ha selezionata! Ciò che ricordo mi salverebbe la vita? Ma anche ciò che dimentico lo fa! Se dimentico un abuso sto meglio!? Faccio bene a dimenticarlo?

Ma se è utile alla sopravvivenza perché la memoria è piena di buchi? Perché funziona così male?! Ogni volta che in una di quelle riunioni o cene citate da Hillman, mi ritrovo a raccontare qualche evento familiare, condiviso o collettivo, allora inizia la fiera della contrattazione dei fatti. Ognuno ricorda ciò che vuole e “coi ricordi, si sa, non si è mai sicuri” diceva Danilo Kis.

Memoria e oblio

Comunque sembra che memoria e oblio siano complementari. L’una trattiene il ricordo di ciò che minaccia il corpo, la materia di cui siamo composti. L’altro elimina i ricordi che minacciano la Psiche. Voglio dimenticare il dolore psichico dell’abuso e tutte le sue componenti ma, al contempo, devo ricordare il dolore fisico per evitare che riaccada.

Dunque la sopravvivenza della psiche è data dall’oblio e quella del corpo dal ricordo? Questo è il piccolo dramma che va in scena in ogni seduta. Il corpo deve ricordare possibili minacce e, contemporaneamente, la psiche deve dimenticare quella stessa minaccia. Buffo come l’uno tenti di imporre all’altro la sua legge e viceversa.

Insomma per questo se non ricordo un nome, un racconto, una data, un evento cruciale, ciò è utile alla terapia. Purché sia reso disponibile.

L’utilità sta nel creare le condizioni per digerire quel conflitto, per elaborare un evento sapendo che la misura in cui ci cura è proporzionale a quella con cui ci fa soffrire. E non c’è scampo, ciò che allevia il corpo non salva la psiche, e ciò che salva la psiche espone il corpo. Jung diceva che troppo spirito e il corpo muore e viceversa, o giù di lì. Quindi quando un paziente si irrita perché non ricordo che il padre è morto e che magari il funerale c’è stato una settimana prima, non lo nascondo altrimenti rischierei la sopravvivenza o del corpo o della psiche. Che poi si sa, anche se non lo diciamo, noi terapeuti abbiamo un debole per lei. Dunque Non cerco di far credere ai pazienti che li penso tanto intensamente da ricordare tutto di loro. Il fatto che ascoltarli mi dia gioia anche se si tratta di sedute tremendamente noiose, il fatto che io dipenda dalla terapia perché sono tossico in craving tutte le volte che un paziente salta la seduta, non mi esime dallo svolgere il mio dovere, ossia far emergere quel conflitto corpo-mente che tanto ben emerge in Mnemosine che gioca a rimpiattino con le 9 figlie sue sotto lo sguardo severo di Zeus.

Far finta di ricordare, o peggio, ricostruire un racconto disperso è solo una fuga da quel conflitto che io e il pazientissimo paziente abbiamo rimesso in scena. Nessuno mi paga per far finta che il suo racconto sia indimenticabile e la gioia è solo una delle tante emozioni che mi spingono ad andare in seduta e ricordare. Ma una terapia si gioca molto più su ciò che dimentico, in barba alla captatio benevolentiae del “Buon” Hillman che nella citazione dell’incipit sta solo cercando di compensare la sua aperta ostilità alla sua intervistatrice.

Conclusioni

Ogni funzione emergente dalla selezione naturale porta vantaggi che hanno come costo svantaggi. L’evoluzione non è tanto la presenza di una mutazione casuale quanto dalla capacità che abbiamo di far parlare questa mutazione con il resto del corpo e della psiche.

Sembra che la Psicoterapia sia il luogo principe dell’evoluzione, e un terapeuta che ricorda tutto si oppone all’evoluzione e sfugge al suo compito salvando narcisisticamente l’immagine edulcorata e mistica del guru con cui ogni paziente giunge in terapia.

Ma, lo dico a me e a tutti i colleghi, se ci confondiamo con quell’immagine non stiamo lavorando per ciò per cui veniamo pagati. Ogni maestro verrà ucciso per il suo bene e quello dei discepoli. Come con quel paziente che mi mise su di un trono segandone le gambe mentre lo faceva, un paziente con cui abbiamo lavorato molto che… oddio come si chiamava?! Non ricordo.

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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