Peccati Capitali




Eccoci arrivati al terzo capitolo del romanzo psicologico in pillole di Luca Urbano Blasetti [CLICCA QUI per leggere il primo capitolo]: I peccati capitali

I 7 peccati capitali sono Ira, Avarizia, Invidia, Superbia, Gola, Accidia, Lussuria. In realtà il nome peccato è improprio, infatti dovrebbero chiamarsi i vizi capitali. Tuttavia, il senso comune ha sdoganato l’idea del peccato.

I 7 vizi capitali sono gli atti moralmente più gravi che un uomo possa commettere e che, di conseguenza, portano a commettere i peccati relativi.

Vestiamoci, dunque, di quelli che Aristotele definì i “vestiti del male”, e addentriamoci nel racconto per esplorarli dal punto di vista psicologico e immaginale.

Buona lettura!

 

Gola [I carciofi mi fanno vomitare]

Se c’è una cosa che pensavo fosse una mitologia massmediatica, erano gli effetti della gravidanza sulle puerpere.

Sentire gli odori, il seno che cresce, le nausee e i vomiti pensavo fossero un po’ delle invenzioni simili all’Uomo nero, Babbo Natale o il “topino dei denti”. Servissero, cioè, solo a facilitare alcuni comportamenti.

Generalmente servono per sollecitare una condotta desiderabile, o con la minaccia di una punizione, vedi l’Uomo nero, o con la promessa di una ricompensa, vedi Babbo Natale. Altri, come il topino, hanno solo l’utilità di mitigare l’impatto di un evento traumatico come la perdita di un dente. Chiaro che il trauma è psichico, dato che non c’è nulla di innaturale in un dentino che cade. Quindi tutte le volte che non ci viene richiesto di comportarci bene o di sorridere per un momento di merda, si, tutte quelle volte i racconti che ci fanno rischiano di essere piuttosto veritieri.

Come nel caso del sentire gli odori o avere nausee in gravidanza. “Attenzione che se ti comporti male ti vengono le nausee!” Oppure” “Dai che se ti viene la nausea poi il folletto ti dà la mancia”. No, queste frasi non hanno senso. Quindi accadranno perché ciò che accade sfugge al senso comune e, per questo, accadranno con tutta la loro virulenza. Certamente la crescita del Seno è una ricompensa, ma in questo caso è a favore non della possidente di seno, quindi non vale.

Francesca ha avuto circa due mesi di nausee. Non saprei dire bene quando, ma hanno interessato un paio di mesi dei primi cinque. Vomitava. Specie la sera. Io le reggevo la testa senza un motivo, dato che non penso che abbia un’utilità farlo. Poi al terzo battesimo del rigurgito di strada ho smesso di reggerle la testa, anche perché lei mi chiese perché mai le reggessi la testa e io non seppi rispondere. Quindi la città era tappezzata di luoghi in cui aveva vomitato e anche quelle rare volte in cui andavamo a cena fuori si ridussero. Non potevamo sopportare che, date le esigue finanze, quello che avevamo appena pagato a ristorante venisse subito vomitato. Ci faceva lo stesso effetto che avrebbe fatto comprare un auto e rigarla subito con la chiave.

Io non sono uno che vomita facilmente, ma tutto quel cibo semidigerito mi riportava alla mente i carciofi. I carciofi sono fiori e quando sei piccolo vedi gli adulti litigarseli. Mi chiedevo perché mai ci fosse esultanza all’arrivo dei carciofi. Mi chiedevo chi fosse il folle che avesse usato del denaro proprio per acquistarli. Ma i genitori sono mercuriali, ossia paraculi. Se c’è un cibo non di nicchia che non ti piace, ti dicono che si mangia tutto, ma se la pietanza è rara e risponde al famoso teorema delle patate, ossia al fatto che sono sempre poche, a quel punto ti veniva dato un esonero speciale e, in via del tutto eccezionale, potevi fare a meno dei carciofi. Intanto loro, i genitori, ingordamente, trangugiavano il verde fiore e godevano bellamente della consistenza dei gambi, quella stessa consistenza che a te provocava il riflesso del vomito.

Però, un bambino nella sua ingenuità, intuisce che se c’è tanta lussuria nel rapporto con un carciofo, come se vi fosse qualcosa di sessuale, il fatto che non debba essere fatto e che sia peccaminoso è soltanto un modo per nasconderti qualcosa di bello.

Se la gola peccaminosa degli adulti li brama, il fatto che tu abbia un esonero ti fa sorgere un dubbio.

Insomma, dietro quell’esonero in via del tutto eccezionale, si nascondeva il segreto del carciofo.

Ho quasi subito iniziato a pensare che non fosse il carciofo a non essere buono, ma che fossi io a non saperne apprezzare il sapore, a pensare che fossero le mie papille ad avere un qualche difetto. Certo ho continuato a godere di quell’esonero fino a circa 16 anni. Quel giorno era un Giovedì, e di Giovedì accade di cambiare le cose. Sedevamo in tanti intorno al grande tavolo da pranzo di Nonno. Quel Salone faceva eco alle grida eccitate di tutti e sei i figli di mio Nonno e di tutti i 17 nipoti di mia nonna. Le grida erano solo timidamente attutite dal soffitto a cassettoni a circa 8 metri sopra le nostre teste, mentre i cristalli del grande lampadario sembravano rendessero ancor più striduli gli acuti, specie quelli che emettemmo tutti all’arrivo dei carciofi.

Si, perché quel giorno avevo visto in cucina i malaugurati fiori e avevo pensato che il mio obiettivo, quell’oggi, fosse di conquistarne uno tutto mio. Mi faceva vomitare, ma quel giorno mi faceva vomitare di più l’idea di non essere parte della compagnia degli amanti di carciofi.

Lo decisi a tavolino, insomma. Mi sarebbero, da quel giorno, piaciuti gli stramaledetti carciofi. Quindi acclamai l’arrivo dei fiori un tempo violacei e, quando fui sul punto di ricevere di nuovo l’esonero, con aria di sfida e con lo stesso sguardo di Clint Eastwood nei film di Leone, tuonai dicendo, nel modo imperativo di un baritono, che mi venisse passato il piatto dei carciofi. Un istante di silenzio seguì e gli sguardi rivolti verso di me preludevano i complimenti, giunti subitaneamente, per il mio essere entrato a far parte del clan.

Nessuno sapeva che mi facevano ancora vomitare. e io stesso godevo per il rito di iniziazione, ma col terrore di dover affrontare una circoncisione. Impiattai il carciofo e iniziai da quel lurido gambo. La purea del carciofo si sciolse sulla lingua e io bloccai il riflesso. Dissi alla mia gola di aspettare. Le intimai di concedere al carciofo solo qualche istante e lei obbedì.

Non so se fu più per il far parte del clan o meno, ma , d’un tratto, apprezzai la bontà di quel frutto del signore. Indugiai nel deglutire. I petalosi carciofi si distendevano sulle papille e io ebbi la sensazione di vedere prima il verde, poi il viola e una sequenza di tonalità da esperienza psichedelica noir. Poi i colori divennero sapori. Prima la menta e il prezzemolo, poi l’aglio e infine sua maestà il Carciofo nella sua magnificenza.

Avevo deciso che da quel giorno mi sarebbero piaciuti e mi accorsi che da quel giorno fui io a piacere a loro, furono le mie papille o chiedere udienza. Ne mangiai due e il mio peccato di gola mi fece intendere che la gola non è un peccato ma è solo l’incontro con un evento cosmico, ossia la perfetta corrispondenza tra un fatto fisico e uno psichico. Il sapore del carciofo è lo stesso sapore che ha il sentirsi membri di una stessa famiglia. Così come in fitoterapia il carciofo cura il fegato, quel giovedì curò il mio che smisi di rodermi per l’esclusione dal clan dei carciofi.

Mentre lussuriosamente vagheggiavo quel ricordo, risbucò Francesca da dietro l’auto. Mi guardò sfiancata e mi sorrise. Non sapevo dove trovasse la voglia di sorridere. Io feci lo stesso e andammo a casa. Basta ristoranti prima che nasca!

Smise di vomitare quando il fatto fisico coincise con quello psichico, ossia quando entrambi, il suo corpo e la sua mente, erano all’unisono pronti a generare.

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Invidia [Vorrei recitare Dante a memoria]

Le gravidanze durano 9 mesi. Né un giorno in più, né uno in meno.

Quei giorni di vomiti reiterati iniziarono a farmi sperare che finisse tutto il prima possibile, prima dei 9 mesi. Ma Le gravidanze durano 9 mesi. Né un giorno in più, né uno in meno. Eppure qualcosa si muoveva e quel qualcosa si trovava nel ventre di Francesca. Spesso ho sentito dire dalle donne di quanto noi uomini siamo invidiosi di quell’esperienza, ed effettivamente, penso si tratti di qualcosa di indescrivibile e unico. Il corpo cambia e si avverte di doverlo proteggere per proteggere il nascituro. Si avvertono sensazioni inaspettate e si avvertono anche le sensazioni del pargolo. Probabilmente lo stato umorale di chi deve nascere incide su quello della madre, e solo chi è donna può sperimentare quel tripudio emotivo che somiglia quasi a una psicosi. La madre avverte le stesse emozioni del nascituro e le riconnette a quelle provate nell’infanzia. Il tutto permette di riuscire a riconoscere le emozioni del figlio e permette di comprenderlo empaticamente. Intanto il corpo cambia e la pancia inizia a muoversi. Sembra che il figlio inizi il suo dialogo con i movimenti. Preme, stira, pigia, contrae, trema, tocca, corre, scatta. E tutto è visibile sulla pancia. Un vero spettacolo della natura.

Ecco, io in verità non ho mai provato invidia per questo. Mi godevo lo spettacolo. Mi godevo lo spettacolo soprattutto perché non sentivo né il mio corpo deformarsi, né la mia psiche moltiplicarsi ma, soprattutto, quello spettacolo non preludeva ad alcuna lacerazione di qualsivoglia orifizio del mio corpo. Insomma l’invidia che ho provato per le donne non ha mai riguardato la maternità, anche perché la maternità ha sempre stuzzicato la mia curiosità. Per questo riempivo di domande Francesca.

Invidia è il voler qualcosa che qualcuno ha, e tu no, e io sono profondamente invidioso, fino al punto di invidiare per qualcosa che l’altro ha, ma che ho anche io. Invidio chiunque sia felice per la sua condizione. Invidio un amico che sorride felice in vacanza postando le foto, invidio chi vince al gratta e vinci, invidio chi ha una bella moglie e lo sa, invidio chi ha figli che vanno bene a scuola e chi ha un auto bella. La cosa buffa è che li invidio anche se mia moglie è bella e anche se i miei figli vanno bene a scuola, perché io invidio il fatto che gli altri sentano questa condizione come esclusiva, mentre io avverto sempre che la mia unicità è sempre la più grande illusione. L’invidia è quindi la rabbia verso coloro che mi sbattono in faccia che non sono per niente unico. Anche se poi, alla fine, gli sono anche grato.

Ma, soprattutto, invidio chi riceve ammirazione, sottraendomi l’attenzione del mondo. Questo mi spinse a leggere il mio primo libro: L’isola del tesoro. Non mi è piaciuto, ma ho goduto moltissimo nel vedere l’ammirazione di chi venne a sapere che avevo letto un intero libro. Per lo stesso motivo imparai una poesia di Ungaretti: Soldati. La imparai intenzionalmente, data la sua brevità, per potermi illudere di sapiente intellettualismo, quasi a scimmiottare i nonni e gli zii che, durante i pranzi domenicali, o meglio al momento dei dolci secchi e del vin santo, recitavano poesie classiche a memoria. Mentre scrivo le immagini tornano e fanno capolino, come la luce del primo pomeriggio che attraversava le finestre e i soliti cristalli del grande lampadario del salone da pranzo. In quello che vivevo come un anfiteatro, tenorilmente, gli aedi familiari declamavano quei 4 massimo 8 versi (peraltro gli unici del loro repertorio) che impiegavano per far coda di pavone. Inspiravano febbrilmente aria, bulimici d’ossigeno, d’azoto e di vino, anche oltre la loro capacità polmonare.

“Ed ecco verso noi venir…” l’incipit di zio Peppe (al secolo Giuseppe) sui versi del traghettatore dantesco Caronte. Ribolliva, tra risa e invidie fraterne, l’eccitazione del resto dei commensali che iniziavano una gara a chi per primo riuscisse a far eco alla recitazione di quei versi. E tutti riuscivano a declamare all’unisono e con un tempismo pieno di invidia il secondo verso “Un vecchio bianco, per antico pelo” e, poi, urlando tutti sul “ gridando…”, sembravano cedere il passo a mio nonno che torreggiava col verso ammonitore “… Guai a voi anime prave!” (l’esclamativo è proprio di Dante)

fino al “…non isperate mai veder lo cielo!”, orgasmico finale di un orgia familiare.

Io incontrai Invidia per la prima volta in quella giornata in cui mio cugino, di ben due anni più giovane di me, attempato seienne, riuscì a unirsi al coro mentre io ne rimasi escluso per ignoranza. Ahimè non avevo imparato quei versi per la mia ostinazione a non con-fondermi con il sangue del mio sangue.

Mentre, sfumando, solo mio nonno proseguiva sommessamente i versi successivi “i’ vegno per menarvi all’atra riva ne le tenebre eterne in caldo e ‘n gelo …“ , lo vedevo lì, il tronfio consanguineo, con la stozza di pane in mano, un po’ pingue e con gli occhiali tondi che incorniciavano quegli occhi azzurri pieni di soddisfazione. Angelo si chiama quel cugino, un nome che lo rende messaggero dell’avvento di Invidia. Sono certo che mentre declamava Dante pensava anche a quanto stessi rosicando per non sapere quei versi. Figlio lui stesso di Giuseppe, me lo figuravo nel viaggio da Roma a Rieti, ripetere quei versi pazientemente declamati dal padre. E invidia mi veniva a trovare una seconda volta nell’osservare quell’immagine dentro di me. Invidia del padre che Freud ribattezzò invidia del pene.

Del resto io avevo sempre creduto di averlo “più grosso” di mio padre già da circa 7 anni di età… per questo, in quel momento, non invidiavo tanto le dimensioni di quell’Angelo, piuttosto sembrava che invidiassi la sua possibilità di vivere l’invidia del pene.

La stessa invidia che spinse Atena a distruggere il lavoro di Aracne, eccelsa tessitrice, fu poi il motore che mi spinse a usare i versi di Ungaretti come riscatto rispetto a quel cugino primogenito di zio Peppe a sua volta primogenito e figlio prediletto di mio Nonno, nonché mio cugino prediletto.

Quindi non ho mai invidiato le donne per il fatto che avessero una vagina. Sono giunto anche ad invidiare un paraplegico per la sua sedia a rotelle, ma ho sempre invidiato coloro che potevano transitare l’esperienza dell’invidia del pene del padre. Con questo spirito osservavo, estasiato e ammirato, la pancia di Francesca muoversi sotto le spinte di Solidia. Senza invidia e senza che mia figlia potesse, già da lì dentro, iniziare a invidiarmi.

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Lussuria [Il primo bacio]

Ero sereno. Mia figlia cresceva nella pancia e un fiocco la proteggeva. Sapevo che non dovevo fare molto se non osservare. Eppure… più passavano i mesi e più il velato senso di colpa che mi accompagnava iniziava a trovare un canale per essere espiato. La fatica è tutta della donna, e questo è fuor di dubbio. Ma l’esperienza che fa un uomo è molto spesso poco raccontata. La grandezza del nascituro nel ventre è direttamente proporzionale al peso della puerpera. E il peso della puerpera è inversamente proporzionale al numero di cose che può svolgere. Il numero di cose che la puerpera svolge è, a sua volta, inversamente proporzionale a quelle che svolge un uomo.

Insomma più si va avanti e più il corpo del futuro padre resta l’unico abile allo svolgimento di tutti i compiti necessari. Gradualmente cercavo di accollarmi questi oneri e fare in modo che Francesca fosse tranquilla. Inoltre aver perso il primo figlio, mi spingeva a sollevarla anche da compiti che poteva ancora svolgere. Le ho odiate per questo, madre e figlia ma. Al contempo, il mio correre freneticamente era un atto espiatorio che mi pacificava con il fatto che fossi così compiaciuto nel non dover portare in ventre la nascitura, e nel non dover espellere nulla dal mio corpo. Il senso di colpa è un’energia enorme, pari alla fusione fredda. Eccomi, così, correre in farmacia, poi al supermercato, portare la spesa, cucinare, passare l’aspirapolvere, lavare i piatti, fare la lavatrice. In ogni momento la futura mamma cercava di fare la sua parte. Del resto non ha mai goduto dell’essere accudita e io sfruttavo questo stile amazzonico per continuare a non pulire il bagno.

Intanto, silenziosamente, gli immaginari erotici scemano e quella voglia di sesso viene a tal punto frustrata che tendevo a mettere quelle energie nel fare il casalingo o nel suonare la chitarra. Nei mesi delle gravidanze ho perfezionato il mio stile divenendo un esecutore discreto. E dire che le mie esperienze erotiche sono state piuttosto precoci.

Nicoletta era la nipote della fidanzata di mio zio. Non so perché ma in certo periodo della mia vita spesso stavamo insieme e ci sentivamo forse un po’ fidanzati anche noi. Io dall’alto dei miei cinque anni e lei dal basso dei suoi quattro. La zia veniva a trovare mio zio e lei era lì. La aspettavo con trepidazione moderata e osservavo quel suo viso rotondo incorniciato da una chioma di rotondi riccioli. Non era bella ma era carina, come lo può essere una bimba di 4 anni. Io, dal canto mio, ero tutt’altro che appetibile e direi che non ero bello e neanche carino, anzi ero brutto di quella bruttezza che genera un po’ di compassione in chi osserva un bimbo brutto di circa 5 anni. Però ero carismatico. Non so perché, ma mi sembra di aver sempre avuto la capacità di far sembrare un ciuffo d’erba come se fosse un mazzo di rose. E Nicoletta non era immune a questa mia qualità, povera lei.

Giocavamo nel grande palazzo di mio nonno. Giocavamo tra la mia camera da letto e il grande salone con il solito grande lampadario i cui cristalli risultavano lividi in quel Giovedì pomeriggio uggioso. La luce a malapena illuminava il salone ma quei cristalli sembravano poco più che pezzi di plastica trasparente. Fuori vagheggiava un temporale che era prossimo raggiungerci e, con quella elettricità dell’aria, ci rifugiammo, al suono di un tuono lontano, sotto il grande tavolo da pranzo. Quella è l’età in cui una tovaglia su un grande tavolo può farsi casa e dare un senso di sublime calore, quel calore che sempre e solo Estia può dare. Ci siamo stesi, naso all’insù. Uno accanto all’altra. L’uno dritto e l’altra leggermente inclinata con la testa verso di me. Leggevamo le venature del legno del tavolo come fossero progetti di vita e giocavamo spesso a “casa” ma quel giorno la “casa” divenne un piccolo monolocale in un sottotetto parigino e noi non eravamo da meno di Duchessa e Romeo, gli Aristogatti destinati ad un improbabile matrimonio.

Per questo mi sono sentito in diritto di proporre a tavolino, come in un consiglio di amministrazione, ma col piglio del romano di borgata, la possibilità di darci un bacio. Non ricordo le parole precise, ricordo che lei mi guardò e che tra i nostri occhi passò la stessa elettricità che era presente nel temporale che, nel frattempo, era giunto sopra le nostre teste. I suoi occhi rotondi e scuri erano molto più belli dei miei ma non era la bellezza che ci attraeva. Ci attraeva l’idea di poter esplorare Eros. Secondo me non ci siamo mai piaciuti, ma eravamo una sorta di “bacioamici”, cioè bambini che potevano usarsi per crescere e così facemmo.

Le mie labbra sfiorarono le sue e in quel tocco si innescarono una serie di immagini dentro di me. Da una parte vedevo la dea dell’amore danzare con le ninfe intorno a noi, dall’altra tutti i miei compagni di classe che esultavano come all’arrivo trionfale degli alleati durante la seconda guerra mondiale e, in ultimo, Gesù con suo padre, Dio, che per voce del Papa e di un tribunale ecclesiale composto da cardinali e preti tra cui mio zio, che mi ammonivano additando la mela a cui avevo appena dato un morso. A incorniciare queste immagini ci fù anche un’inaspettatissima tenerezza tra noi.

Ma la cosa buffa è che non c’è eros senza peccato, non c’è soddisfazione senza colpa e, anzi, forse è proprio la colpa che sancisce la soddisfazione. Direi che ogni volta che ci sentiamo in colpa, considerando che sentirsi in colpa significa spingere verso una direzione, stiamo facendo ciò che è opportuno. Ecco cosa è la lussuria è fare ciò che ci piace quando ciò che ci piace è opportuno che accada. Se non c’è colpa non c’è lussuria e se non c’è lussuria non c’è soddisfazione. Quindi la tenerezza aiuta a sentirsi soddisfatti.

Mi ritrassi da Nicoletta pieno di vergogna e di peccato ma al contempo tronfio della mia virile prestazione. Lei mi guardava con sguardo interrogativo, invitandomi a non ripetermi ma pur sempre invitandomi con gli occhi che luccicavano. Ma il pudore religioso mi pervase. Non potevo essere un profanatore. E l’ultimo lampo, quasi sincrono al tuono, mi confermava che non dovevo.

Allo stesso modo mi ritraevo da Francesca che non poteva, e non sarebbe mai più potuta essere la portatrice di un immaginario erotico. O meglio poteva ma io, d’ora in poi, lo avrei dovuto mettere su una Madre. Compresi in quel momento cosa provasse Edipo di fronte a Giocasta. Francesca era una Madre. Lo sentivo, ne sentivo l’odore, ne osservavo le movenze e la pettinatura. D’improvviso, in casa c’era una Madre ed io, per assurdo, contemporaneamente ne divenivo orfano. Ma un materno va sempre onorato e, per la cronaca una coppia madre-figlia non va mai invasa… pena la morte.

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Avarizia [Farsela addosso]

Mentre aspetta un bambino, un uomo può avere mille immaginari con i quali confrontarsi, ma mai come quelli con cui si confronta la futura madre. E vi sono paure inconfessabili durante una gravidanza, mentre alcune di queste risultano confessabili. Almeno ad alcuni. Quella mattina, quando la madre della mia futura figlia fece capolino sull’uscio della porta della cucina me ne accorsi perché prima spuntò la pancia. Stavo facendole il caffè. Io, che avevo sempre dichiarato di odiare il fare il caffè. A lei, che aveva sempre dichiarato che adorava fare il caffè, facendola godere di questa premura. E questa non era una premura della gravidanza ma era di tutti i giorni. Mi dava i nervi farlo ma, in cuor mio, sapevo che alla sua bugia di adorare fare il caffè al mattino, anche io avevo bugiardamente risposto quando ci siamo conosciuti. Perché quando ci si conosce non si dice chi si è ma chi si vorrebbe essere.

Mentre avvitavo la moka ben oltre l’escursione della filettatura, eccola comparire seguendo la sua pancia. Mi guardò con aria preoccupata e sorrise a malapena: aria indispettita. Non perché fosse incinta, ma perché ogni mattina ha sempre avuto come obiettivo quello di trovare un colpevole per tutto ciò che le stava accadendo nell’anima e che i sogni le ricordavano puntualmente. E io ero sempre il primo che incontrava. Ed ero disponibile per lei, oltre che per i sogni.

“Sai cosa mi fa paura del parto?” mi disse mostrandomi i denti con un sorriso imbarazzato e cercando di sfuggire allo sguardo. Pensavo che le solite minuscole macchioline nere suoi denti l’avessero spinta a trattenere una parte di sorriso. “No… ma posso immaginarlo” le risposi, ostentando la sicumera tipica di chi non sa molto e non può sapere. Lei cambiò sguardo nella direzione della solita irritazione che aveva quando ostentavo quella sicumera poi, con la luce dal lucernario che radente scolpiva ombre picassiane sul suo viso disse, quasi sottovoce, ma in modo talmente limpido da permettere di capire: ”… ho letto che durante il parto molte donne se la fanno addosso…”

Di solito inizio sempre a parlare subito, con parole di circostanza, quasi per dare l’idea di non trasecolare, e anche in quell’occasione feci così: “mbè immagino che tu sia piuttosto impaurita. Mi sembra del tutto normale…”. Poi riesco a decodificare le parole che mi erano state dette prima e elaboro, nel breve tempo in cui proferisco le prime parole di circostanza, una teoria efficiente. Il tutto con la stessa velocità con cui, quando attraverso la strada, calcolo se il tempo che ho sia sufficiente a non finire sotto l’auto che sopraggiunge. Ecco in quel tempo infinitesimale decisi che la paura di farsi sotto la pipì fosse accettabile e che lo fosse anche la figuraccia. Quindi proseguii sorridendo paterno: “… comunque un po’ di pipì non fa male a nessuno”.

Questo non dissipò il suo imbarazzo che, anzi, esponenzialmente, crebbe quando trovò il coraggio di dirmi “ma non la pipì! Quell’altra cosa!”.

La mia mente cortocircuitò e, dopo aver riflettuto sul fatto che fossi fortunatissimo a non dover affrontare quella “cosa” così imbarazzante, mi ritrovai in un caleidoscopio di memorie di “cacca” trattenuta e mutande sporcate.

Sono stato un professionista del trattenimento. Tenerla, la cacca si intende, era un passatempo che rispondeva a diversi scopi. Mi permetteva di non perdere neanche un secondo di televisione e di non farmi fregare mentre giocavamo a un gioco da tavolo. Mi salvava dai mostri finché non si fosse fatto giorno e finché non avessi trovato le prove della loro inesistenza. Mi permetteva di tornare sempre nel mio bagno adorato. Ma, soprattutto, mi piaceva.

Quando anni dopo lessi che alcuni folli, facenti capo a un certo Freud, sedicente inventore di una disciplina chiamata Psicologia, affermavano che esiste una fase in cui si tende a trattenere la “cacca”, e che questa fase si prolunga specialmente in persone che sono avare, trasecolai. Sarei avaro solo perché mi piace trattenerla? Rifiutai l’idea e cercai di rimuovere quell’ultima volta in cui per avarizia finii per farmela addosso.

Sei anni e sull’orlo dei sette. Io, mio fratello e mia sorella andammo con mia madre ai giardinetti. Avevo fatto solo una “trattenutina” prima di uscire e contavo sul fatto che il movimento da una parte, e i muscoli sfinterici dall’altra, avrebbero fatto il loro dovere. Eccoci correre sui prati sotto i pini marittimi che, nella stagione giusta, donavano pigne e i loro figli i pinoli. Ed ecco che trattenendo di quando in quando, riuscivo a seguire il gioco.

Fu all’improvviso che lo stimolo divenne impellente, quasi doloroso, e pensai di dover correre ai ripari. Lo dissi a mia madre fiducioso nel fatto di poter tornare a casa nel tempio personale della defecazione. “Ma siamo appena usciti!” stizzita, ahimè, mia madre disse. Poi intimò mio fratello di accompagnarmi nel bagno del bar adiacente ai giardini. Feci finta che la soluzione fosse adeguata ma solo per non contraddirla. In cuor mio sapevo che ogni luogo che non fosse stato il mio tempio mi avrebbe reso, effettivamente, molto avaro, eliminando lo stimolo. E così fu. Ma a quel punto dovevo comunque recitare la parte. Seguii mio fratello in quel bar frequentato da bevitori pingui. Quando entrammo ci sorrisero con i loro nasi gonfi. Il barista, senza smettere di sciacquare i bicchieri, ci indicò, sempre con il naso, la porticina che conduceva al bagno e noi andammo verso quel passaggio. Attraversammo il lunghissimo minuscolo bar, mio fratello con l’aria tronfia di chi non aveva bisogni da fare, come a dire”Guardate! E’ lui quello che deve cagare!”. Io, dal canto mio, ostentavo fierezza con l’aria di chi spera che gli astanti possano equivocare e pensare che sia mio fratello il futuro colpevole del misfatto.

E si. Perché cagare ci fa sentir colpevoli. Neanche fosse un reato con la sua pena da espiare. Anni dopo mi sarei chiesto semmai un avaro fosse semplicemente un innocente accusato ingiustamente di fare cose che, seppur naturali, sono ritenute sporche. Forse l’avarizia è proprio questo, un trattenere dei comportamenti giusti, limpidi, corretti, per evitare di incorrere nelle sanzioni di ciò che la società si attende. Avarizia è non riuscire a sfuggire alle attese e non riuscire a avviare il proprio processo di emancipazione dalle attese, un processo che un tizio, dopo Freud, chiamò individuazione.

Insomma salii il budello di scalini che conducevano al bagno. Trovai un bagno che era letteralmente un “cacatoio”. Entrai e con me mio fratello. Provate a pensare se potevo riuscire a procedere con lo sguardo di mio fratello puntato su di me e le sue considerazioni sulle mie mutande già in parte interessate dalla questione. Quando mio fratello capì che non sarebbe accaduto nulla, tornammo sconfitti ai giardini. Lui cercò di alleggerire la mia colpa con mia madre in merito alle mutande e tornammo a correre.

Non ci vollero più di 4 minuti perché lo stimolo si facesse di nuovo sentire. Virulento, forte, intenso, incontenibile. Mi fermai, osservai il vuoto e le auto che passavano. Forse si chiedevano cosa facessi lì impalato sul ciglio del giardino. Compresi che tutto era perduto e non feci più resistenza raccomandandomi a Dio che, benevolo, mi sorrise augurandomi buon viaggio di individuazione.

Mentre tornavamo a casa solo una cosa mi avrebbe umiliato di più di una sgridata. La compassione di mia madre e dei miei fratelli. A gambe larghe raggiunsi il bagno, il Mio bagno, dove mi ripulii e fui ripulito.

Guardai Francesca negli occhi e le dissi con la massima partecipazione ”Non ti preoccupare ma, soprattutto, fregatene. Stai partorendo e quello è l’ultimo dei tuoi problemi”. La buttai sull’ironia e, anzi, iniziai a suggerirle di esagerare con peti e caccole. Lei rise mostrandomi quelle graziose macchioline sui denti e io mi scoprii leggero. Del resto nulla la avrebbe potuta umiliare più di quanto mi umiliò farmela sotto a 7 anni e, se io ero ancora vivo, sarebbe sopravvissuta anche lei.

Superbia [La superbia di Decio. Ipnosi regressiva e precedenti illustri]

Quando incontri la tua futura compagna non sai che sarà la compagna di una vita. Per questo ti racconti come ti viene. Non metti in conto che dovrai rendere conto di quel racconto. Quindi, come in molte altre occasioni, ti vendi per più, oppure per meno, di ciò che sei. E lo fai anche se cerchi di essere il più limpido possibile. Poi lei rimane incinta e non ti rendi conto che questo significa che prima o poi scoprirà tutta la verità su di te e che tu scoprirai tutta la verità su di lei scoprendo, così, che dovrai fare a meno di lei. Ora, sia inteso, non sono brutto ma neanche bello e, se volessimo muoverci su una scala di bellezza, Francesca sarebbe certamente diversi gradini più in alto. Eppure aveva deciso di fare una figlia con me, anzi, aveva già tentato di averne una che poi non è venuta alla luce e avrebbe poi deciso di avere altri due figli con me. Insomma ben 4 volte avrebbe deciso di avere figli da me. Perché mai chi si trova diversi gradini più in alto avrebbe fatto questo? Semplicemente perché, appena conosciuti, saltando all’impazzata e con frenesia, riuscii a farle credere che ci trovassimo sullo stesso gradino. Ora vi racconto.

Questo mio modo di fare non è raro, anzi è frequente e nel tempo ho imparato a far sembrare un petto di pollo una pietanza da gran gourmet, magari solo cambiando le parole e mettendoci qualcosa tipo “filetto di pollo in crosta con limone sfumato al marsala” che tradotto sarebbe una cotoletta. Penso di aver avuto sempre quest’arte ma la affinai alle scuole superiori prendendo a modello Decio.

Per tre anni lo ho avuto come professore di filosofia e storia. So che dovrei dire di Storia e filosofia ma a me la storia non è mai andata a genio e Decio lo sapeva e non mi faceva sconti e, anche se ho avuto sempre l’impressione che mi apprezzasse come filosofo in erba, non mancò di rimandarmi di storia per poi farmi passare l’esame di recupero senza che io lo meritassi. Invece meritavo qualcosa in più come filosofo ma, si badi bene, non come studente della materia ma come un avido di speculazioni mistico-filosofiche e sempre pronto a oppormi al consueto modo di raccontare le materie secondo il canone di insegnamento diffuso. Questo mi rendeva insolente e saccente e trasudavo una certa superbia. Al terzo anno di liceo ero convinto che io solo avessi accesso a ciò che è essenziale e ero convinto che il resto della scuola si accontentasse di non vedere l’essenza e di indossare una maschera. Tutti erano “persone”, io ero a volto scoperto. Per questo tutti i docenti mi soffrivano tranne Decio. Penso che in fondo fosse d’accordo con me, anzi penso che la fatica che facevo da studente nell’accettare il conformismo di una mediocrità, che poi divenne il mio unico obiettivo, in lui diveniva un’impresa titanica. Io ero saccente mentre lui, dall’alto dei suoi anni e dei suoi studi, sapeva! Questo significa che la mia superbia era immaginaria mentre la sua era divenuta strutturale. Questa sua superbia era malcelata ai miei occhi, mentre sufficientemente mistificata agli occhi della maggior parte delle persone che irritavano lui e me.

Lo vedevo aggirarsi per i corridoi prodigo di un sorriso clownesco, ma non si trattava di una maschera, si trattava della sua essenza. L’ovale romboidale che incorniciava quel volto elastico e scuro, presentava in cima dei capelli folti e radi, scuri, a tratti bianchi. ricordavano Don King. E di Don king aveva anche il colore della pelle benché fosse italianissimo, così come lo erano i suoi due figli a tratti più scuri di lui. La sua testa iniziava a scoprirsi in modo consistente e con quel sorriso era teleologico, quindi non era reattivo, ma assolveva a scopi diversi. Da una parte sorrideva paternamente quasi a dire “beati voi che non capite un cazzo”, dall’altra si faceva sadico e si sdegnava di quanto i colleghi si consegnassero alla mediocrità. Lo diceva tanto da filosofo quanto da appartenente alla specie Homo sapiens.

Una radicata convinzione della propria superiorità, reale o presunta, che si traduce in atteggiamento di altezzoso distacco o anche di ostentato disprezzo verso gli altri, e di disprezzo di norme, leggi, rispetto altrui. Cosi il vocabolario Treccani descriverebbe la superbia suggerendone il carattere vizioso. Osservandolo, invece, mi riferisco a Decio, iniziai a pensare che la superbia fosse la condanna di chi non riesce a trovare il proprio posto.

Insomma Decio rendeva l’insegnamento un arte dell’intrattenimento e anche il più palloso filosofo diventava divertente. Ma i racconti su Decio si fecero mitologia tra noi studenti, facendolo diventare l’incarnazione stessa della superbia, un uomo ai confini della legge e della morale, ma per questo in posizione privilegiata per osservare la verità.

La stessa verità che ci raccontò il giorno in cui doveva insegnarci uno dei miti Platonici più importanti e che, un giorno, avrebbe scandito il mio lavoro da psicoterapeuta devoto a Hillman. Il mito era quello di Er. “Er soldato Er…” incipiò, come spesso faceva, in un romanaccio piuttosto credibile. “Er era un soldato che morì in battaglia…” proseguì con un sorriso che tradiva le sue intenzioni, rasentando la sadica voglia di dirci che Babbo Natale non esiste. “…Ecco Platone ci racconta di Er per dirci che succede quando muori e dice che Er doveva scegliere la vita successiva e quindi s’era messo in fila. Tutti stavano in fila e quando toccò a lui, lui scelse la nuova vita e poi gli hanno detto che doveva bere dal fiume Amelete che era il fiume dell’oblio che ti faceva dimenticare tutto”. A quel punto Decio, posseduto dalla forza della superbia, divenne lui stesso Er. E sono ancora convinto che tutto ciò non fosse pianificato, ma che fosse il risultato vero e proprio di uno stato allucinatorio mistico.

“Quel giorno c’ero anche io…” Decio disse ”…Erano tre vite che mi ritrovavo in quel cazzo di mondo delle idee e, siccome dovevi prende il numeretto per metterti in fila, e siccome andava primo chi in vita aveva filosofeggiato di più, io presi il numeretto e ero quinto. Ho studiato filosofia nelle mie vite per prendere il numeretto più basso e finalmente ero quinto. E mi so detto che stavolta col cavolo che avrei avuto una vita come le ultime due in cui sono stato, prima una lumaca, e poi una prostituta. Mò vi chiederete come faccio a raccontarlo se dopo ho bevuto dal fiume della dimenticanza? Ecco semplicemente ho tenuto l’acqua in bocca…” e fece per gonfiare le guance che si fecero bianche al tirarsi della pelle che sembrava ancor più tesa dal fatto che gli veniva da ridere. Poi, simulando di sciacquarsi come dopo essersi lavato i denti, fece scoppiare le guance e continuò “… e poi lo sputata, quindi mò mi ricordo tutto, alla faccia vostra. Il punto, insomma, è che stavo in fila e mancava poco. Guardavo le vite che avrei potuto scegliere e avevo visto quella di Paul Newmann ma…” Fece una pausa realmente stizzita al punto che nessuno di noi potesse mettere in dubbio la plausibilità del racconto, poi scosse la testa e fece un accenno di gesto col braccio destro e, ruotando la testa verso sinistra, sempre e solo verso sinistra, e concluse “ … ma non se l’è presa quello stronzo davanti a me! E a me non m’è rimasto nient’altro che la vita di Decio… n’a vita deemmerda” finì senza esclamazioni e provato dai profumi e dagli umori della vita che stava vivendo. Una vita che, al di là di quella sceneggiatura improvvisata, secondo me gli è sempre piaciuta.

Francesca era estasiata e rideva grassamente mentre finivo il racconto di me che mi ero ritrovato la vita “demmerda” di Luca perché quello davanti a me s’era presa quella di Brad Pitt. Eravamo a Firenze sotto la statua del Ratto delle Sabine del Giambologna. Io muovevo le braccia all’impazzata per enfatizzare l’impresa e lei si divertiva come non mai. Cercavo di rapirla ubriacandola di filosofia da bettola di borgata. Raccontai la storia così come Decio me l’aveva raccontata, seppur aggiornando il suo Paul Newman che era diventato per lui un’ossessione. Ma non lo citai e capii che il ratto di Francesca era andato a buon fine quando, esausta, lei, si lascio cadere sulle mie gambe e, sorridendomi col naso all’insù, come se stessimo insieme da almeno un decennio, sospirò. Un sospiro che conteneva la fatica di tutte le gravidanze che avremmo transitato insieme. Le stelle ci facevano da cornice e io sentivo Decio che mi osservava come un Ciranò postlitteram, da dietro la statua, superbo, come sempre. Allora compresi che senza la superbia Decio non sarebbe riuscito a insegnare e io non sarei riuscito a convincere Francesca ma, soprattutto, né io né lui avremmo avuto figli. Né in casa né a scuola. Dunque siate superbi. Ci penseranno poi i figli a distruggere la vostra superbia liberandovi e restituendovi al mondo.

Accidia [Quando il tempo fa l’amore con la necessità, nasce l’opportunità]

Sesto mese e mezzo. “Scalcia!” Qualcuno inizia a gridare, chiaramente con stupore trascendente, che mia figlia sta scalciando. Io osservo la pancia e non vedo alcun movimento. Poi mi distraggo e…“Scalcia!”. Qualcuno grida e dentro di me quel grido, più dell’entusiasmo di chi ha osservato il prodigio della vita, è la felicità di chi gode nel sapere che io, per l’ennesima volta, non ho visto una mazza.

Non posso escludere che mia figlia si muovesse. Non ho mai dubitato quando Francesca mi diceva che si stava muovendo. Ma Francesca osservava non con gli occhi ma con il corpo. Invece gli osservatori esterni, affidandosi agli occhi non sanno che questi, gli occhi, hanno una capacità di ingannare impensabile. Per questo troppo spesso questi urli li vivevo come le guarigioni di Lourdes o come le apparizioni di Madonne piangenti, puro frutto del bisogno di credere. Ma un figlio ci mette 9 mesi a nascere e ci voleva ancora qualche tempo perché mia figlia avesse la forza per deformare la pancia della mamma. In quelle grida c’erano le attese di chi, già prima che venisse alla luce, chiedeva a mia figlia di somigliare a qualcuno. Un figlio appena nato non somiglia a nessuno, ma tutti lo fanno somigliare a chi vogliono. Quelle sono le attese che torturano il nascituro già da alcuni mesi prima della nascita.

Ma le attese mi fanno pensare al tempo, alla crono-scansione di ciò che avviene, al modo in cui riempiamo le attese di immagini, di sogni, ricordi e riflessioni.

Mekonnen lo incontrai in mezzo alla savana del Kenya. Alla fermata dell’autobus di Dol Dol, un centro abitato, con poche case, le une di fronte alle altre, quasi a ricordare il lontano west degli Stati Uniti. Invece Dol Dol era a poco più di un centinaio di chilometri a nordest di Nairobi.

Vittorio mi aveva trascinato fino in Africa. In verità lo avrebbe fatto al venticinquesimo compleanno della figlia che, al sesto mese e mezzo di gestazione, scalciava nella pancia della madre. Il suo venticinquesimo compleanno sarebbe coinciso con i miei 57 anni e con i 22 due di convivenza con Francesca. Quei 22 anni avevano reso lei ragionevolmente insofferente nei miei confronti. Io sono sempre stato refrattario ai viaggi e questo era sempre stato motivo di tensione tra noi. Per questo avrei accolto l’idea di Vittorio. Partire con lui per un viaggio in Africa che aveva come scopo salvarci dalle tensioni coniugali e consegnarmi alla madre terra.

Vittorio non è un viaggiatore, è più un turista. Ma lo è per scelta. Potrebbe fare certamente il viaggiatore, potrebbe partire senza meta e senza sapere se tornerà. Maneggia l’inglese e il francese in modo corrente, è facile alle relazioni ma, soprattutto, ha una profonda fiducia nel mondo. Una fiducia che lo protegge da qualsivoglia pericolo. Anche il suo aspetto fumettoso lo protegge perché induce a trattarlo come un orsetto lavatore e, come il suo corrispettivo animale, sapeva mordere alla bisogna.

Lui non volle venire a Dol Dol quel giorno. Non aveva voglia. Dopo una settimana di Safari vari e incontri con bufali assassini, leoni sbadiglianti e elefanti barrenti, aveva deciso di fermarsi a bordo piscina dell’Hotel a cinque stelle che ci aveva consigliato Pietro, quel vecchio amico scapolo che, grazie alla vedovanza preventiva, aveva fatto carriera come ambasciatore.

Io difficilmente mi sarei mosso senza Vittorio, ma la scuola che era stata costruita a Dol Dol, era il risultato diretto dei fondi che ero riuscito ad ottenere per l’Associazione umanitaria per la quale lavoravo. In verità dirigevo, o meglio ai miei 57 anni, dirigerò un centro per il trattamento delle dipendenze ma, al contempo, avevo seguito, passo passo, la costruzione di quella scuola, muri, mobili e personale. Quindi ci tenevo a vederla. Andai a Dol Dol tramite il passaggio di uno dei volontari che lavoravano nella scuola. Di ritorno da Nairobi per una visita medica, mi caricò su quella vecchia Land Rover con cerchione nero e gli altri tre in lega grigia. Ma da Dol Dol sarei dovuto tornare con i mezzi pubblici.

Per questo mi trovavo in mezzo alla savana kenyota. A bordo strada, anche se l’idea di bordo, ma soprattutto quella di strada, devono essere intese proprio come idee. Si perché ci vuole immaginazione per vedere una strada in Africa, la stessa immaginazione che ci vuole per trovare le somiglianze in un neonato.
In mezzo al nulla giunsi alla fermata dell’autobus, il che vuol dire a un cartello e, udite udite!, C’era qualcuno che attendeva. Sembrava sveglio, con sguardo fisso ma in una specie di trance da attesa. Una sorta di letargo che mi era capitato di avere a Roma mentre aspettavo la metro. Il mio è sempre stato utile a escludere i noiosi pendolari. In Africa era utile a ridurre l’attesa. A non percepire il tempo. Effettivamente quando chiesi al direttore della scuola a Dol Dol quando passasse l’autobus, mi rispose semplicemente che sarebbe passato al momento in cui sarebbe dovuto passare.

Effettivamente Mamma Africa mi ha insegnato questo. Crono è il tempo lineare che divora. Quello che ci fa sentire la crisi di mezza età. Quello che ci ricorda che un’era si chiude. Ma lì, in Africa le cose accadono secondo Necessità, senza i fronzoli dei racconti di chi le vive. Come la storia del Leone e della gazzella. Questo significa che il tempo non è autonomo ma si deve sempre confrontare con la necessità.

Nell’Antica Grecia c’era Crono divoratore dei suoi figli poi eluso da Zeus, e Ananke dea di necessità. Ho fantasticato le notti d’amore tra il vecchio Crono e la frigida Ananke. Ho immaginato la gestazione di lei e infine la nascita di loro figlio Kairos, il tempo dell’opportuno.

In Grecia Kairos era definito il tempo propizio, ossia il momento opportuno perché ciò che accade accada. L’Africa è il grande Tempio di Kairos. E in quel tempio l’autobus passa quando deve passare. Quindi passai il tempo a osservare quell’uomo accovacciato di chiara origine più nordica rispetto al tipico colore di un Kenyano. La sua pelle tendeva più all’oliva, il baffetto sembrava più quello di un indiano induista, così come il fisico asciutto ma non segaligno. Se non era Eritreo, era certamente Etiope.

Accidioso attendeva. Noncurante del tempo che scorreva. Lo contemplai lungamente e scoprii che l’accidia non era un vizio in Africa, ma una virtù. La virtù di chi sa contrarre il tempo riempiendolo di immagini, sogni e riflessioni. L’accidia è il talento di chi si incanta a osservare le nuvole vedendole muoversi rispetto alle montagne. E’ il talento di chi vive un minuto come se fosse un ora e un’ora come fosse un minuto. Accidia è il saper delirare uscendo fuori dai confini della materia per entrare nel mondo delle immagini. Poiché l’accidia è in chi osserva il nullafacente, mentre costui, l’accidioso, sta combattendo epiche battaglie, mangiando in banchetti trionfali, esplorando terre sconosciute.

Non so Dove guardasse Crono ma, ad un tratto l’Autobus passò. Era straordinariamente moderno per essere una corriera del centro Africa. Si fermò senza alzare polvere e con la gialla porta elettrica che funzionava perfettamente, spiccando sul resto del bus che era di un blu cobalto che in Africa era presente solo nelle piume dello storno blu.

Il mio amico di attese si alzò quasi meccanicamente e, mentre si avvicinava alla porta del bus, mentre io attendevo concedendogli il diritto di prelazione, d’improvviso, mi accorsi che avevo ragione. Era Eritreo. Ma soprattutto lo conoscevo!

Non più di 32 anni prima Mekonnen, questo il nome del mio amico di viaggio, lo incontrai a Rieti. Io lavoravo come mediatore per i richiedenti asilo. Erano i tempi in cui i mediatori potevano anche non parlare l’eritreo, ossia la lingua di Mekonnen. Ci frequentammo per qualche tempo. Io convinto di poterlo aiutare, lui illuso di potermi spiegare la sua vita. Così come ci incontrammo ci perdemmo di vista.

Lo urlai. “Mekonnen!” E lui, ancor nel torpore del sonno, si voltò. Non ci volle molto perché gridasse a sua volta il mio nome. E mentre gridava iniziò a piangere e io con lui, anche se più parsimonioso con le mie lacrime. Salimmo sul bus. Mekonnen tornava a Nairobi per prendere l’aereo per Asmara. Era venuto a trovare un amico di Dol Dol che aveva conosciuto in Germania mentre era rifugiato, dopo essere andato via da Rieti si era stabilito ad Augusta. Parlammo come se le parole fossero le pietanze di un lauto banchetto. Ci ingozzammo insieme di racconti e giungemmo a Nairobi.

Così come ci incontrammo ci perdemmo di vista. Ma questa volta salutandoci con un abbraccio che mi fece intuire un pizzico di quella vita. Il pizzico che avevo vissuto in quei trent’anni, e il pizzico che avevo assaporato in quei giorni africani.

Ecco cosa è Kairos. Il tempo opportuno, il tempo propizio perché ciò che deve accadere accada. E si farà riconoscere portando con se l’Eureka della riscoperta, le lacrime dell’amore e un senso di profonda rinascita. E l’accidia è il vizio di Crono e Ananke, è il luogo, il ventre in cui Kairos può essere concepito e crescere serenamente.

Per questo mentre osservavo la pancia di Francesca godevo della sua immobilità. Non vedevo alcun piede scalciare. Non pensavo a un nome, non presagivo somiglianze. Attendevo ma non mia figlia, ma quel tempo propizio che avrebbe portato, insieme a mia figlia, una rivelazione. Intanto Francesca sorrideva bonaria mentre io fissavo il suo ventre. Si perché in fondo mi rodeva dentro, che tutti avessero visto, quindi la obbligavo minuti interi di ferma. Ma tanto il tempo propizio non era ancora giunto.

Ira [Proteggi la tua terra, ma prima conoscine i confini e chi la abita]

Francesca ha sempre odiato il mio modo di parlare al plurale durante la gravidanza. “Siamo Incinti”, dicevo, e lei, immancabilmente storceva il naso.

Come potevo pensare di essere partecipe di una gravidanza? Io non avrei visto la mia pancia crescere, allargarsi il bacino, sentire la fatica di respirare, avere le voglie, mangiare per due, sbalzi d’umore, sentire gli odori, fare sogni speciali, sentire la pancia che si muove, vomitare, dormire male… Invece io parlavo come se così fosse. Dirle che mi sentivo molto partecipe non mitigava la sua arrabbiatura, considerando, tra le altre cose, che, da brava artemidea, non voleva dover ammettere che avesse bisogno di un certo aiuto.

Comunque mi destinava una certa fiducia. Quando aveva avuto le nausee, io provavo a pensare a una soluzione, e lei non mancava mai di vagliarla. Al settimo mese le suggerivo come fare una doccia e quali vestiti indossare. Lo facevo da donna navigata che stava già alla terza gravidanza. Sono un uomo convincente e con una buona arte oratoria. Più che buona direi ottima, per questo, a tratti, Francesca mi ascoltava quasi credendo che effettivamente io avessi avuto l’esperienza di una gravidanza sul mio corpo. Il resto del tempo mi mandava a cagare.

Mio Padre non capiva perché lo stessi mandando a cagare. Urlava da bordo campo come se fosse il generale Patton, di cui era , tra le altre cose, un fervente ammiratore. Mio fratello gli faceva eco come il più fedele dei soldati pronti alla “prima linea”. Io ero, invece in battaglia. Le orecchie tese al bordo opposto del campo, verso il Coach che si sgolava. Rosso in volto, come una macchia di Montepulciano d’Abruzzo su una tovaglia di lino da corredo, Gioacchino, questo il nome del coach, mi indicava cosa fare. Non ho mai ascoltato. Più che altro il mio impegno era nella direzione di assumere una condotta che potesse fargli credere che lo avessi ascoltato. Del resto lui non si aspettava molto da me, ero un giocatore mediocre e sul campo avevo lo stesso ruolo degli arcadi che andarono in appoggio agli spartani nella battaglia delle Termopili, ossia facevo un gran bel trambusto e disturbo alle logiche degli avversari. Si perché, come gli arcadi non avevano addestramento, anche io difendevo e attaccavo secondo logiche che sfuggivano a qualsiasi coach e quindi anche a quello degli avversari.

Non riuscivo a fare lo stesso con mio padre. Non riuscivo a ignorarlo dandogli attenzione. Non riuscivo a continuare senza osservarlo, anche quando ero di spalle. Inoltre la rabbia che montava non era solo verso di lui. Era verso tutta la classe di genitori che urlavano da bordo campo. Gridano contro l’arbitro, gridano verso il coach, gridano verso i figli, gridano tra di loro, gridano a loro stessi. Si ammoniscono bruscamente per non aver fatto le scelte giuste, per non aver sfruttato quell’occasione, per aver ceduto quando avrebbero dovuto tenere il punto e per non aver saputo cedere. La mia ira conteneva la loro.

Correvo da una parte all’altra del campo e, con gesti sommessi e misurati, chiedevo a mio padre e al suo secondo, quel rompiballe di mio fratello maggiore, di stare in silenzio. Ma nelle mie braccia aperte, come quando si dice il padre nostro, loro continuavano a leggere una richiesta d’aiuto e non una dichiarazione di guerra. La vanità della richiesta di non invasione, intanto, fece si che l’ira iniziasse a interessare anche mia sorella che, sogghignante, sedeva sotto loro due, sugli spalti, pettinando una bambola che maneggiava come un pupazzo voodoo con sopra scritto il mio nome.

Lo stridio del tabellone e il clangore delle voci mi scuoteva e mi faceva sentire come in una centrifuga. Cercavo di distinguere tra i suoni, come un jazzista di lungo corso, quelli a cui dovevo dare ascolto ma, sempre come un jazzista, iniziavo a soffrire quella esecuzione di pessimo gusto. Mi ritrovai con il pallone in mano in circa tre occasioni ma, in quel marasma, pensavo solo a come levarmelo di dosso. La mia partita a pallacanestro si era trasformata in una gara a “bomba che scoppia”.

Non sapevo più chi ero. Faticavo a distinguere i compagni dagli avversari. Ci sembravo tutti appartenenti alla classe dei figli inosservati. Vedevo il coach e il campo vilipeso. Vedevo la grinta animale di noi fanciulli regimentata, in fila, come in attesa del macello. Il pallone perse di importanza mentre cresceva in me l’urgenza di difendere quel capitano, quel campo, quegli animali.

D’un tratto compresi che l’Ira è l’emozione che, più di altre, serve a definire chi siamo, quale sia il nostro campo, dove siano i confini che delimitano dove inizia l’altro. L’Ira ci viene a trovare quando i confini sono sfumati o assenti. Compresi, dunque, che l’Ira non era causata dagli altri ma ne veniva mitigata nella misura in cui, loro, gli altri, da mio padre al coach, costruivano i miei confini mostrandomi i loro.

Intanto, ancora ignaro di questo, e iroso, palleggiavo sulla destra del campo e, quando vidi corrermi incontro due avversari, sapevo che la mia bassa abilità nello smarcarmi mi condannava all’ennesima contestazione da parte dei tifosi, o peggio alla loro rassegnata indifferenza. Vedevo gli avversari a rallentatore. I suoni erano attutiti. Guardai i compagni ma erano tutti marcati. Il labiale del coach gridava “passa la palla”. Il labiale di mio padre gridava di smarcarmi con gesti atletici che non erano nel campionario della mia memoria motoria. Il labiale di mio fratello diceva di andare avanti e spaccare tutto. Gli altri genitori sapevano che avrei perso la palla. Mia sorella se ne fotteva altamente e intanto mi carezzava i capelli.

“Hai rotto le palle!” tuonai verso mio padre e la mia testa ruotò gradualmente abbracciando tutti gli spalti. Mantenni le pupille solo su mio padre ma con la testa mi rivolsi a tutti. “Devi stare zitto! Non si capisce quello che dici e non conosci la pallacanestro. Sei lì che urli su come devo correre ma tu non sai neanche come correre sul tuo campo e vuoi insegnarmi come correre sul mio!? A ogni parola, gesto o sguardo in più non fai altro che rubare la grinta dal campo!”Il pubblico continuava a urlare per conto suo ma a me sembrò che il tempo si fosse fermato. Vigoressicamente lanciai la palla in direzione di mio padre ma lei, la palla, inesorabile e impietosa, si stampò sulla ringhiera per ricaracollare stancamente sul campo. Fece due massimo tre rimbalzi senza averne voglia e con suono sordo, poi qualcuno la prese immantinente. La frase d’effetto che avevo pensato come finale non aveva, a quel punto, ragion d’essere quindi non dissi “Adesso giocala tu questa partita se sei capace”. Silenziosamente ripartimmo da una rimessa laterale e io continuai a giocare di merda fino alla fine. In compenso mio padre continuava a gridare dagli spalti.

Il dio più iroso è Marte che viene detto dio della Guerra. Ma in verità non è così.

“O padre Marte
ti prego e scongiuro,
perché tu sia favorevole e propizio
a me alla casa e alla nostra famiglia.
E per questa grazia
intorno al mio campo, alla mia terra e al mio fondo
un porco, un montone e un toro ho fatto condurre
perché tu i mali visibili e invisibili
la sciagura e la devastazione
la calamità e le intemperie
impedisca, scacci e allontani,
e perché le messi, il grano,
i vigneti e i virgulti,
tu li lasci crescere bene e svilupparsi…”

Lessi il carmen di Catone con avidità e cupidigia, come ascoltando chi mi volesse rivelare qualcosa di me ma a me ignoto. Circa 30 anni dopo quella partita, Marte, dio agricolo, mi ricordava quanto fossi agricolo. Quanto allora stessi difendendo il mio campo e gli animali che lo abitavano. Stessi proteggendo i virgulti. Il carmen mi svelò non solo quello che avevo tentato di fare in più occasioni ma, soprattutto mi svelava come spesso l’invasore era semplicemente un abitante di quel campo.

Allo stesso modo accolsi le grida di Francesca quando mi chiese di farla finita di fare l’esperto. Che non potevo sapere cosa significasse partorire e gestare. A differenza di mio padre io mi tacqui, anche se lei non sapeva che quel campo mi conteneva, così come io non avevo capito, decenni prima, come mio padre non era invasore ma cittadino di quel campo.

Per questo l’ira di Francesca si prestava come segno massimo del nostro legame, poiché ci ricordava come, nell’immenso mare e nell’immenso spazio delle terre emerse, noi fossimo, senza nessun motivo apparente, confinanti.

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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