Andare verso il nulla

Si incomincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia? (Emanuele Severino, Essenza del Nichilismo, Paideia, 1972 pag. 313)

Se c’è una cosa che la pandemia di covid-19 ha rammentato al mondo è quanto il nichilismo sia evidentemente la radice psicologica del mondo occidentale e ormai, a seguito della globalizzazione, anche del resto del mondo.

Emanuele Severino è stato secondo molti il più grande filosofo italiano del secolo.

La sua idea di nichilismo è di una micidiale semplicità: la credenza, peculiare al pensiero occidentale, che le cose sorgano nel nulla e nel loro disfarsi vadano verso il nulla.

Se da un lato questo modo di pensare ha permesso, dice sempre Severino, all’Occidente di progredire in modo tecnico ed affermarsi come ideologia dominante anche nel mondo moderno (che ci piaccia o meno anche l’Oriente è lentamente collassato sotto i colpi dell’occidentalizzazione), dall’altro lato rappresenta anche la più grande condanna dell’umanità.

Credere che le cose vadano nel nulla è in realtà una paura atavica. L’antropologia sapeva da sempre che alla base delle costruzioni culturali e delle forme rituali e magico-religiose sta un tentativo di scongiurare, di dominare la paura del Nulla, la quale non esiste nella follia, che è la condizione peculiare dell’umano pre-sociale, ma che insorge immediatamente quando si iniziano a stabilire confini e identità, a dire che questo è diverso da quello, a imporre norme, regole e categorie per strutturare una società (si veda ad esempio Federico Divino, Mondo Sacro, 2019). Se si dà forma ad un definito, si apre anche alla terrorizzante possibilità che vi sia un indefinito, un altro spaventoso, e questo altro è, poiché indefinibile, percepito come un nulla, nel quale le cose cessano alla loro morte e dal quale, inconsciamente, crediamo che esse sorgano quando si presentano alla vista.

Se dovessimo dunque donare alla psicologia archetipica queste riflessioni severiniane ed antropologiche, diremmo che l’archetipo del nichilismo è proprio la morte. Non si tratta però del processo di morte alchemica, che già Jung, in Mysterium Coniunctionis (Bollati Boringhieri, 2017), definiva come una trasfigurazione, una trasformazione.

Severino fa notare che anche in questo v’è una contraddizione implicita nel pensiero umano: dire che una cosa diventi altro da sé, significa dire che essa diviene ciò che non è, che prima muoia, andando nel nulla, da cui poi altro.

L’archetipo della fine 

Il terrore della morte è da sempre dunque lo spauracchio che soggiace a tutti i traumi. La chiamiamo “psicosi collettiva”, quella scatenata all’annuncio della pandemia da covid-19, sebbene sia ridicolo associare alla psicosi i comportamenti che vediamo in questi giorni.

Lo psicotico, ci ricorda Lacan, pur nella sua follia, sa chi è: il folle è determinato, non vaga nell’ignoto, ma lo ha accettato, lo domina, lo cavalca, si confonde in esso, coincidendo con un punto preciso, il folle è determinato nel suo mondo.

Quella che stiamo vivendo è piuttosto un’isteria di massa, una crisi nevrotica, una condizione in cui le persone, private della certezza della loro identità, commettono azioni irrazionali a tutela del proprio Io, e ciò accade solo ed esclusivamente perché un fattore è sopraggiunto ad instillare questi dubbi: qualcosa ha ricordato agli umani ciò che i riti prima e la fede scientista poi avevano cercato di soffocare a tutti i costi: la paura della fine.

Certamente il covid-19 non è la nuova peste. Non dobbiamo temere un dimezzamento della popolazione mondiale con le attuali condizioni igieniche e prevenzioni mediche, né sto dicendo che bisogna sottovalutare la situazione. Certamente però, questa isteria di massa manifesta nei recenti assalti ai supermercati, nell’ossessione per procurarsi mascherine (sebbene tutti gli esperti insistano sulla loro scarsa utilità per i soggetti sani), la gente che fugge appena viene a sapere di un’imminente quarantena abbandonando ogni senso di solidarietà comunitaria per difendere il proprio ego, cambiare strada quando si incrocia qualcuno nelle già deserte vie delle città, alimentare allarmismi sulla nuova epidemia mondiale e, in taluni casi più gravi, annunciare, scherzosamente o meno, l’imminente nuova apocalisse, è un comportamento abbastanza significativo.

Due antinomici terrori governano l’epoca in cui viviamo: quello di «perdere il mondo» e quello di «essere perduti nel mondo». per un verso si teme di perdere, non tanto con la morte ma nel corso stesso della esistenza, lo splendore e la gioia della vita mondana, l’energia che sospinge verso i progetti comunitari della vita civile, verso la tecnica e la scienza, la solidarietà morale e la giustizia sociale, la poesia e la filosofia; per un altro verso si considera il mondo come pericolo che insidia il piú autentico destino umano, e quindi come tentazione da cui salvarsi. (Ernesto De Martino, La Fine del Mondo, Einaudi, 2019 pag. 360)

Quello che temiamo in questo caso, è ciò che l’antropologo e precursore dell’etnopsichiatria italiana Ernesto De Martino, chiamava “fine del mondo”. Non una fine del “mondo” intesa come fine del pianeta, ma il “mondo” inteso come mondo della nostra interiorità, del nostro vivere soggettivo, di ciò che per la fenomenologia è “essere nel mondo” (Dasein) e che De Martino chiamava “presenza”.

Il Coronavirus come immagine delle nostre paure

Siamo tutti nella “crisi della presenza” senza rendercene conto, ed è importante non cedere anche per questo. La situazione ci ricorda chi siamo, ricorda che siamo vittime di un archetipo della fine, l’archetipo della morte, ma dovrebbe anche farci riflettere sulla nostra psicologia: gli archetipi sono forse dati nel mondo o sono piuttosto i mattoni della nostra psiche?

La coscienza animica non solo relativizza la coscienza egoica, ma relativizza anche l’idea stessa di coscienza. E allora non è più chiaro quando siamo psicologicamente consci e quando inconsci. Persino questa discriminazione fondamentale, così importante per il complesso dell’Io, diventa ambigua. Perciò l’Io tende a considerare sfuggente, capricciosa, vacillante la coscienza animica. (James Hillman, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Adelphi, 2002: 179)

James Hillman riteneva che gli archetipi potessero ammalarsi o far ammalare le persone, e per questo la psicologia archetipica si proponeva di conoscerli per diventare, in un certo senso, consapevoli degli archetipi, e non più vittime inconsapevoli.

Il pensiero che, contrastando l’eterno apparire della verità dell’essere, avvolge la terra nella solitudine è la stessa volontà con la quale l’uomo, abbandonando l’abitazione originaria, vuole diventare un mortale. L’esser mortale è ciò che in verità l’uomo si trova a volere, quando vuole la solitudine della terra. (Emanuele Severino, Essenza del Nichilismo, Paideia 1972 pag. 275)

L’archetipo del nulla non è un nulla: esiste perché il nulla è prima di tutto un’idea di nulla. In questo vi è l’intrinseca contraddizione del nulla che Severino denuncia nelle sue opere, e da cui la psicologia moderna può trarre grandi benefici. Il problema sta dunque nel vivere assoggettati all’idea del nulla, e quando la paura del nulla domina la psiche, ricordandoci dunque che “connesso al rischio magico di perdere l’anima sta l’altro rischio magico di perdere il mondo” (Ernesto De Martino, Il Mondo Magico, Boringhieri, 2007 pag. 123).

Conclusioni

Forse il coronavirus viene percepito ad oggi come un’essenza quasi tangibile che incarna questo archetipo del nulla.

Indipendentemente dunque dai suoi rischi reali, questa minaccia è percepita come più di una semplice malattia, ma piuttosto come un attentato all’esserci di ognuno.

La psicologia archetipica ha tutte le potenzialità, una volta compreso questo rischio, di rassicurare l’Anima dalle incombenze dell’archetipo del nulla, che è forse la matrice di ogni costruzione psicologica umana, e dunque anche ciò che sostanzia il terrore per la sua fine.

P.S. CLICCA QUI per leggere L’impatto psicologico del Covid-19

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Info sull'autore

Federico Divino

Antropologo e Linguista, specializzato in Antropologia della salute mentale (etnopsichiatria). Ha compiuto un percorso di formazione personale in psicoanalisi.

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