La terapia di coppia: chiamare uno psicoterapeuta

Quando si decide di sentire un terapeuta significa che si è arrivati a un punto nodale della propria esistenza, ma significa anche che si fatica a transitarlo da soli. In genere si giunge in terapia in fasi di passaggio importanti della propria esistenza come quando l’adolescente si affaccia alla tardo-adolescenza, oppure quando ci si sposa e si lascia il nido, oppure alla nascita del primo figlio o alla pensione. In breve si giunge in terapia chiedendo allo psicoterapeuta di aiutarci a separarci dalla nostra idea di noi che, in barba a noi, sta morendo ossia, tradotto, si sta trasformando. Il giovane uomo saluta il fanciullo, il padre saluta il giovane uomo, il saggio saluta il padre. In terapia si elabora sempre un lutto anche se la maggior parte delle volte si tratta di un lutto immaginale.

Ma se è la coppia che giunge in terapia?

Cosi come in terapia individuale il paziente chiede di essere salvato dalla separazione e dal lutto, parimenti la coppia chiede di essere salvata dalla separazione. Invece anche in questo caso lo scopo della terapia sarà la separazione. Non sappiamo se concreta o immaginale, non sappiamo, cioè, se vi sarà una separazione dall’idea dell’altro, ovvero una separazione fisica e giuridica dall’altro. La coppia, comunque, si ritrova di fronte a separazioni multiple. Ogni parte della coppia deve separarsi da tre individui: l’idea (o l’immagine) che si ha di se; l’idea che si ha del partner; l’idea che si ha della coppia, del “Noi”. Dunque, quando una coppia arriva in terapia bisogna chiarire da subito questi obiettivi. Il terapeuta non lavora per tenere insieme la coppia, ma lavora a queste separazioni multiple.

La coppia, la separazione e la rinuncia dell’Io

Ci sono volte in cui questa separazione può avvenire a livello immaginale, ossia vedendo i partner rinunciare, seppur dolorosamente, all’immagine che hanno dell’altro/a, di sé e del “Noi”. In questi casi viene inaugurato un nuovo rapporto che vede lo sconosciuto che è in me congiungersi con lo sconosciuto che è nell’altro, a formare una coppia nuova, un “Noi”, sconosciuto a entrambi. Non è raro, tra le altre cose che questo nuovo “Noi” sia più rispondente all’immagine che parenti e amici hanno di questo “Noi”, più di quanto non lo fosse all’idea che avevamo preconfezionato all’interno della coppia.

Ma spesso la separazione avviene concretamente perché non si riesce a procedere nei passaggi tripli di cui  sopra. Non siamo più pronti alla sofferenza della castrazione, del lutto di immaginari. Non accettiamo il continuo evolversi dell’anima e le chiediamo di farsi cristallo, immutabile, sempre uguale a se medesima. Siamo in un’era in cui il separarsi concretistico delle coppie sembra essere un fenomeno collettivo, un’era che cerca di ridefinire il maschile, il femminile e la coppia. In genere la separazione concreta segue un principio psicologico fondamentale: “Mi separo da te perché non mi voglio separare da me” che tradotto suonerebbe come: “l’idea che hai di me mi piace più di me, e l’idea che ho di te mi è utile a rimanere come sono”. Insomma la separazione immaginale, che è quella che vedrebbe la coppia restare unita nel concretismo, comporterebbe la rinuncia all’immagine idealizzata di sé, del partner e del “Noi”. Per questo i tribunali sono pieni di separazioni legali, per salvare la continuità dell’IO. La giustizia poggia su criteri che puntano alla salvaguardia dell’Io in genere, mentre tralasciano ciò che è giusto per l’anima.  Per questo, generalmente, si esce arrabbiati e sofferenti dai tribunali, perché ci si attende un intervento sull’anima, mentre il giudice, come il medico, ha come obiettivo salvare l’Ego delle parti in causa.

Se invece rinunciassimo all’Io, se lo considerassimo, come suggeriva prima Jung e, più tardi, Hillman, come un complesso tra i complessi, allora riusciremmo a liberare i tribunali e a vivere in coppia.

Ma, inoltre, è vero che un tempo la vita media della coppia era di circa 30 anni, poiché la morte poneva fine a quell’opus contra naturam. Poi l’aspettativa di vita è aumentata e allora sono nate le separazioni e, magicamente, la vita media della coppia è rimasta di circa 30 anni. C’è forse una vita media della coppia? O c’è forse una resistenza media al cambiamento che è maggiore a quella della coppia? Non lo sappiamo. Sappiamo che dobbiamo morire, e che dobbiamo farlo più volte, se vogliamo evitare la separazione nel concreto.

Mitologia della coppia 

Proviamo a fare un esempio, semplicemente e per semplificare, come un divertissement. Il più frequente equivoco coniugale è ancora, ma non per molto, quello che vede l’incontro dei poli Marte-Efesto e Afrodite-Atena. Con gli dèi ci riferiamo sempre, e in modo relativamente semplice e intuitivo, a configurazioni di personalità. Quindi capita sovente che un uomo ricerchi Afrodite e sposi Atena, ossia che vada alla ricerca della sensualità devota di una moglie che ha come ambizione curarsi di ciò che è maschile e sposi, inconsapevolmente, una donna determinata e non necessariamente avvezza all’economia domestica. Dal canto suo la donna stessa è devota ad Afrodite. Si perché, nell’immaginario collettivo, ogni donna vive la colpa di un Afrodite atrofica. Dunque oggi che la configurazione Atena, ossia di un femminile devoto al femminile, devoto al lavoro, capace strategicamente di coltivare se medesimo, insomma questa configurazione indossa le vesti di Afrodite celando la sua determinazione. Quando nel corso dell’unione della coppia, complice l’avvento di Demetra, dea madre, ossia complice l’avvento dei figli, la donna smette le vesti di Afrodite, la coppia soffre. Del resto tutti, uomini e donne, siamo figli di Afrodite prima di conoscere Demetra. Con questo si vuole intendere che ogni individuo è governato dall’eros afroditico ma solo fin quando non venga fondata la funzione materna e paterna.

La coppia soffre perché entrambi nell’incontro irrinunciabile con Atena, vedono venir meno l’eros e vedono la donna posseduta dal bisogno, oggi finalmente irrinunciabile di onorare la femminilità intesa come determinazione del femminile. Del resto molte mogli di uomini illustri, un tempo sfocate dietro l’ombra dei mariti, hanno iniziato a porsi in primo piano. Hillary Clinton, Diana di Inghilterra ecc. Ma non escludiamo la moglie di Pollock o la moglie dello stesso Hillman, Margot Mclean e i suoi stupendi dipinti. Al contempo anche l’Uomo soffre la perdita di Afrodite perché non la ha ancora integrata dentro di se come funzione psicologica.

Una donna dal canto suo si fa trarre da Ares. Indomito e scultoreo dio della guerra che, in difesa della sua terra, ama Afrodite e, nel mentre, parte per la pugna. Poi la coppia, sia lui che lei (e sia inteso che lui e lei vanno considerati in senso immaginale, ossia anche in una coppia omosessuale c’è chi mostra una preponderanza di maschile e chi di femminile), fanno la conoscenza di Efesto, figlio ripudiato di Era che è operoso e diligente ma anche pusillanime e devoto al Materno. Ecco che l’eroico cavaliere diventa il misero scudiero e che, più l’uomo che la donna, soffrono questo lutto.

Ma questo è solo l’esempio che ci consente di comprendere cosa accade e cosa significhi separarsi. Ci si separa da Afrodite e da Marte e per farlo non c’è bisogno di tribunali che difendano l’Io. Anzi è più utile una terapia che lo condanni in difesa dell’Anima in difesa di Atena e di Efesto.

Ma se ragioniamo in questa direzione dobbiamo ammettere un altro fatto. L’eroe, o meglio l’idea eroica di noi, deve morire, Ossia la terapia muove proprio nella direzione di rinunciare all’ideale di sé. Ma questa morte vede il nostro immaginario eroico rialzarsi molteplici volte prima di perire, e altrettanto accadrà nella coppia. Una coppia si separa tante volte, quante sono le volte che il nostro eroe si rialza. E, facciamo attenzione, qui sta il gioco perverso della coppia. Quando uno dei due eroi perisce, l’altro lo aiuta a rialzarsi e viceversa, e lo fa non per salvaguardare l’immagine dell’altro ma la propria, e la propria vive anche grazie a quella del partner. Quindi le volte in cui ci si separa da immaginari eroici nella coppia sono numericamente molto maggiori rispetto a quanto non avvenga nel singolo individuo. Del resto una coppia è fatta di due identità. E’ fatta di due sofferenze, di due pathos, di due discorsi  sul pathos, di due patologie. E queste patologie sono complementari. Ognuna risponde all’esigenza di tener vivo l’eroe nella propria psiche e in quella del partner. Il sintomo è un tentativo di cura fallito diceva Hillman.

Questo ci permette di riflettere su un fatto. Se uno dei due partner vede la morte del proprio eroe interiore, se vede quindi un prendersi cura di sé, un cambiare il discorso sulla propria sofferenza, se vede, come direbbe la psicologia del senso comune, una guarigione, allora o anche l’altro partner “guarisce” oppure la separazione concreta è inevitabile. Due malati terminali hanno motivo di stare insieme, ma se uno dei due viene abbandonato dalla malattia, allora la separazione avverrà, anche solo per la dipartita dell’altro.

E il terapeuta è chiamato a movimenti multipli. Il terapeuta sa che l’eroe deve perire, ma sa anche che questo deve avvenire nel momento opportuno, secondo la legge di Kairos. Dunque ci si potrebbe trovare nella strana situazione di proceder col fuoco vivo per deflazionare l’immaginario eroico di un partner e non dell’altro. Del resto l’alchimia afferma :”Conosci il tuo fuoco ma conosci anche la tua materia” che tradotto significherebbe lavora con ogni paziente a temperature diverse. Ma il forno, l’atanor, è uno ed è difficile muoversi come un climatizzatore bizona, ma a questo si è chiamati nella terapia di coppia, come cuocere il pollo e le meringhe nel medesimo forno e nel medesimo momento. In più l’attacco all’eroe riceve sempre la sua resistenza e questa, la resistenza, è tanto maggiore quanto più l’attacco non avvenga contemporaneamente anche verso il partner. Se un marito avverte l’azione antieroica del terapeuta facilmente potrebbe cadere nell’immaginario persecutorio: “Ce l’avete con me, tu e quello là”. Come un pollo che arrostisce e che si arrabbia perché la meringa viene cotta a fuoco lento. Ma in questi casi si deve lavorare onorando più dèi, più Kairos e l’impegno è quasi titanico.

Il registro comunicativo della coppia 

Ultimo ma non ultimo, il problema del registro comunicativo. All’interno della coppia accade, come nella terapia individuale, che ci si muova nell’intrapsichico ovvero nel mondo esterno. Ogni terapia promuove la comunicazione tra i due mondi, una dialettica tra i propri immaginari interni e il mondo intorno a noi. E ogni terapeuta sa che il benessere del paziente è proporzionale alla corrispondenza che c’è tra l’intrapsichico e l’extrapsichico. Ma in una coppia l’uno potrebbe parlare in direzione introversa e trovare il partner all’opposto, ossia a riferirsi ad aspetti concreti. In questo caso si deve fare la traduzione all’uno dell’altro e viceversa. Facciamo un altro semplice esempio cliché. Un marito potrebbe dire: “Tu sei sempre al telefono con tua madre” senza accorgersi di riferirsi a quanto è attiva Demetra, il materno, nella moglie. Se la moglie risponde sul concretismo, sull’effettivo numero di minuti passati al telefono, non comprenderà il messaggio. Viceversa, sempre ipersemplificando, se una moglie afferma: “Sei sempre a calcetto”, non farà riferimento all’effettivo numero di volte in cui il marito va a calcetto, ma all’inflazione del puer che resta anche all’interno della casa. Ma  potrebbe accadere che il marito risponda sul concretismo, ossia sull’effettivo minutaggio di calcetto. Altre volte, invece, è in ballo proprio il concretismo, ossia il minutaggio e il partner si trova invece a rispondere su un piano intrapsichico. Seguendo l’esempio precedente, la moglie si riferisce alle tre volte a settimana di calcetto e non chiama in causa il puer perché il marito ha un paterno molto diligente in casa, e il marito risponde sul piano intrapsichico sentendosi erroneamente colpito sul piano intarpsichico.

Ma se anche entrambi si muovono sul medesimo registro, ad esempio l’intrapsichico, vi potrebbero essere comunque equivoci. Così potremmo avere una donna che parla ad Ares e riceve risposte da Efesto, o un uomo che parla ad Afrodite e riceve risposte da Atena. Dunque la terapia di coppia è soprattutto chiarire i registri su cui vengono mandati i messaggi.

Conclusioni

Del resto tutto questo sembra essere ancora una volta lo specchio del mondo. L’epoca dei femminicidi è un’epoca in cui il primo elemento disfunzionale è proprio quello comunicativo.

Una coppia vive sempre la sensazione di buttare una bottiglia in acqua con un messaggio dentro, ossia vive sempre nell’incertezza che il messaggio non sia giunto a destinazione. In questa precarietà comunicativa si muovono gli archetipi e troviamo il femminile che soffre e il maschile che soffre perché da sofferenza. Questa è la struttura psichica di partenza di questa epoca. E ogni coppia in terapia dovrebbe avere come obiettivo il civile impegno a sanare lo iato tra maschile e femminile.

Ogni terapia ha come scopo l’integrazione del femminile, ci diceva Hillman, e ogni terapia, individuale o di coppia, che vada a buon fine (e questo non significa che elude la separazione concreta), ossia che genera un equilibrio tra maschile e femminile, è un contributo, è un prendersi cura dell’espressione collettiva di questo iato tra uomo e donna che, per brevità, abbiamo chiamato Femminicidio. Una buona psicoterapia è quella che passa dal femminicidio al femminicedio, da un femminile che viene ucciso (caeduus ossia tagliare-uccidere) a un prendersi cura (Kédos) del femminile.

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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