Le mascherine in fase 4

“…il linguaggio ha le sue radici  non nel lato prosaico ma in quello poetico della vita” (E. Cassirer, “Linguaggio e mito”)

Vi vogliamo raccontare come nasce un’immagine, un archetipo e lo faremo avendo incontrato in sogno questa nuova immagine.

La nascita, il parto è un evento incredibilmente affascinante. Ci cattura e restiamo abbacinati da come la vita si rinnova. E ogni volta che osserviamo un germoglio ci stupiamo di come contenga in se tutta la pianta.

Ma come nasce un archetipo? Come nasce un’immagine?

Certo sarebbe troppo lungo qui restituirvi la ricchissima letteratura che, dal cognitivismo alla psicodinamica fino alla fisica dei quanti, ci da ipotesi a riguardo. Ma a noi qui non interessa come, perché o chi abbia generato il big bang, piuttosto ci interessa osservarlo e contemplarlo nella sua incommensurabile bellezza. Allora la nascita di un’immagine è l’ultimo regalo che ci fa il virus. Oggi assistiamo alle mascherine che giungono in sogno mentre prima del Covid baluginavano rade nei sogni dei soli medici.

La mascherina è o non è una piccola maschera?

Direi che il debito con la maschera certamente non possiamo non onorarlo. Sappiamo infatti che la parola “persona” in greco era la maschera indossata dai teatranti sia per amplificare la voce che per interpretare ruoli femminili. Infatti solo agli uomini era dato intraprendere il mestiere dell’attore.

Allora la prima considerazione da fare è proprio questa: la maschera non è più necessaria se coinvolgiamo le donne nel teatro.

Ma leggiamo in trasparenza e ci accorgiamo che la maschera è necessaria solo fino a quando non abbiamo aperto le porte al femminile dentro di noi, nel nostro teatro psichico. E con femminile, per brevità, ci riferiamo alle funzioni psicologiche declinate secondo le dee della mitologia classica. Inoltre la maschera non è più necessaria se non abbiamo come scopo alzare la voce; non ci serve se puntiamo sui contenuti e non sul volume delle parole. Dunque la mascherina nel sogno ci suggerisce come vi sia solo una parziale integrazione delle funzioni femminili dell’anima e come si tenda a alzare la voce poiché i contenuti sono ancora vuoti.

Mascherine nei sogni

Ma l’avvento delle mascherine dei sogni non è mera riedizione della maschera. Altrimenti non potremmo parlare di nascita di un archetipo, ma solo della sua riedizione. Non siamo di nuovo di fronte a quello strumento che ognuno, secondo l’ottica junghiana, indossa per celarsi al mondo e a se medesimo. Si perché se cosi fosse, allora la Psiche avrebbe speso energie per dire qualcosa di ovvio. Psiche non perde tempo per dire cosa che già ci sono chiare. Dunque la mascherina certamente ci riporta a un’intenzione di nascondimento, ma porta con se tutte le componenti che il covid ha lasciato.

Certo leggendo Usener o Cassirer potremmo regalarci un viaggio filologico che spiega la nascita di parole e dèi per poi osservarne la crescita e l’evoluzione. Ma qui non c’è tempo, quindi assistiamo al parto con stupore.

La mascherina arriva nel sogno di una paziente e ingravida l’analisi.

Il sogno

Non rivelerò il sogno per intero, sarebbe poco decoroso… o forse no, ma comunque poco utile. Basti sapere che la mascherina dimenticata in auto impediva l’ingresso in una struttura pubblica in cui, peraltro, non veniva neanche richiesto l’ormai famigerato bavaglio dei chirurghi. Il tentativo di ritrovare la mascherina boicotta l’ingresso definitivamente. Insomma un atto immaginale non si compie perché manca la mascherina, l’ingresso non avviene perché ci si deve mascherare parzialmente, si deve stare alla norma comune che la mascherina richiama e si deve, infine, evitare di infettarsi.

Ecco il nuovo dio, la nuova immagine archetipica che aggiunge, alla maschera classica, la funzione di “norma comune” e di evitamento di “infezione”.

Perché infettarsi

Ma con i sogni si deve onorare le immagini e mai i pazienti, ma sempre accogliere questi ultimi. Allora mi sono dispiaciuto per questo mancato ingresso, per questo sottostare a una norma interna che è quella del senso comune, mi sono dispiaciuto della mancata infezione. Si perché in quel caso sarebbe stato importante che l‘Io si infettasse di ciò che c’era in quella struttura.

Nella struttura attendeva un maschile, un uomo che si rivelava essere un principio regolatore, paterno, tradente ma indirizzante, un maschile da sempre odiato ma da sempre riconosciuto come funzione psichica fondamentale di cui la paziente è mancante. E non perché la paziente non sia di talento, tutt’altro. Ma ogni talento è una mancanza che chiede il suo nutrimento.

“Un oggetto dagli eccezionali poteri entra in una qualsiasi relazione significativa – piacevole o ripugnante che sia – con l’animo e l’esistenza umana segna l’ora della nascita di un tro (dio) nella coscienza degli Ewe (gruppo etnico del Ghana)” (Spieth in Cassirer, “Linguaggio e mito”)

Che bel figliolo

Si, ogni scarrafone e bello a mamma soja. E questa mascherina a fine lock down è splendida nella sua capacità di indicare un archetipo, un’immagine prima solo parzialmente definita. Dunque la mascherina è la tensione difensiva ad infettarsi, a farsi contagiare e, al tempo stesso, è la tendenza ad aderire ad una norma condivisa che non ha nessuna sensatezza se non quella di fornire un alibi a non farsi contagiare. È di fatto comune la sensazione dell’ottusità delle procedure nell’uso delle mascherine.

La mascherina è dunque l’immagine che ci indica come la psiche sia regolata da norme che hanno come unico scopo la stasi. Andare in auto per recuperare la mascherina è l’atto onirico di non concedersi quell’ingresso e quell’incontro. E, sapendo anche noi che non sarà una mascherina a salvarci dal covid, sappiamo che il contagio prima o poi avverrà, secondo necessità, proprio di quell’anima. Ma, si sa, le difese psicologiche non hanno mai brillato per intelligenza.

Dunque come nasce un’archetipo?

Un archetipo, un dio o, per dirla in lingua psicologica, ogni emozione o bisogno, nasce come esigenza oggettiva. Anche nel caso in cui si tratti di una banale azione. Ad esempio se devo arare il terreno. Allora ecco il dio “aratro” che nasce per propiziare l’evento e le emozioni e i bisogni ad esso connessi.  Con lui nasce la parola che da il nome al dio. Poi quel dio inizia a vivere di vita propria. Cambia di nome passando di bocca in bocca e si riedita di anno in anno con piccole metamorfosi. Oggi il suo nome richiederebbe un lungo viaggio filologico per tornare alla sua origine. Noi invece siamo di fronte a un neologismo, a una nuova parola, a una dea appena nata, la mascherina. E se abbiamo la pazienza e la cura di vederla crescere ci entusiasmeremo come nel veder crescere un figlio che, da grande, si sa, non somiglierà mai a ciò che ci eravamo aspettati di vedere.

“Non appena si è sollevato (il dio o la parola) al di sopra dell’immediata necessità, di un timore o di una speranza fugaci, diviene un essere autonomo, che ormai continua a vivere secondo una propria legge” (E. Cassirer, “Linguaggio e mito”)

Mascherina nel sogno

Dunque è nata questa nuova parola. È nata nel senso che è divenuta di uso comune secondo leggi di senso collettive che indicano una funzione precisa. È divenuta patrimonio culturale. È stata dipinta, graffitata, personalizzata, applicata a statue celebri, buttata in terra, bramata, messa male, messa bene, pagata troppo o troppo poco e così via. Ma era solo il travaglio. Poi è nata e ci da l’occasione di osservare come cresce un’immagine come opera d’arte collettiva. E siamo tutti un po’ artisti nel solo atto del parlare. Con piccole modifiche siamo in grado, collettivamente, di generare gli déi, le immagini… e tutta la loro bellezza. Sogni d’oro.

P.S. CLICCA QUI per leggere La maschera necessaria: chi siamo veramente?

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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