Siamo come i taoisti ed operiamo come lo Zen

Inizio con una frase di J. Hillman da me spesso citata:

In un certo senso, noi siamo come i taoisti della psicoterapia, che stanno dalla parte di ciò che è basso, oscuro e debole (…). Da un altro punto di vista, operiamo come lo Zen, nel tentativo di guardare in trasparenza le finzioni soggettive della coscienza, e così dissolvere i letteralismi con i quali s’identifica (J. Hillman, Le storie che curano, Raffaello Cortina, Milano, 1983, p. 157).

Esattamente, quando Hillman si riferisce al Taoismo ed allo Zen cosa vuole intendere?

Non credo che il suo sia stato un capriccio retorico od alla moda perché capisco bene a cosa si sta riferendo. Hillman non era affatto digiuno di conoscenze delle filosofie orientali ed ebbe modo di fare un’esperienza direi iniziatica con Gopi Krishna 1952.

Questo maestro è diventato famoso perché è l’unico autore moderno ad aver lasciato una testimonianza scritta del risveglio della Kundalini, la mistica energia psicofisica che si attiva a seguito di una pratica particolare di Yoga. Hillman scrisse un commento psicologico al testo di Gopi Krishna le cui parole iniziali sono più che significative:

Dato che alcune strane cose mi capitarono sulle montagne dopo aver conosciuto Gopi Krishna, tendo a considerarlo un iniziatore e una persona di grande importanza nella mia vita. I suoi occhi per primi mi portarono a fidarmi della mia vista, delle mie convinzioni, al di là della mia mente occidentale e scetticamente allenata (Hillman, Gopi Krishna, Kundalini, Astrolabio-Ubaldini, Roma, 1971, p.40).

Anche per Hillman l’Oriente fu un passaggio fondamentale per cambiare il punto di vista, mettere in discussione il razionalismo ed iniziare una ricerca personale. Ciò che maturò e sviluppò nei decenni successivi trova fondamento e direi non poco in quel luogo geografico ma soprattutto immaginale che chiamiamo Oriente.

Tornando alla frase iniziale, come vogliamo intendere l’essere come i Taoisti ed applicare lo Zen in psicologia? Iniziamo col dire che il riferimento è a due grandi correnti filosofico-spirituali.

Taoismo e Zen, cosa sono

Il Taoismo è la filosofia naturale cinese, un sapere che unisce in sé i principi alchemici all’uso del corpo e della mente per arrivare al wu-wei, il non-agire. C’è uno scorrere negli eventi che percepiamo e nell’accadere intorno a noi che segue delle sue linee simili al klinamen epicureo, l’inclinazione  che ogni atomo attua nel contatto con un altro atomo.

Vedere, sentire e cogliere queste correnti, il Tao, è lo scopo che si prefigge il Taoista. C’è qualcosa di assolutamente ecocompatibile diremmo noi ma anche molto poetico, questo è il mistero del Taoismo.

L’attenzione taoista segue i punti deboli delle cose un po’ come fa l’acqua quando scivola su di una superficie. Così dovrebbe avvenire per l’attenzione al debole ed oscuro, alla parola malata, che seguiamo nel suo accadere lasciando che precipiti verso la sua individuazione. Ciò che blocca il flusso è anchè ciò che oscura l’immagine come il sintomo cela un dolore inespresso.

Lo Zen è una scuola del Buddhismo sviluppatasi in Giappone intorno all’anno mille, venuta dalla Cina e lì conosciuta con il nome di C’han. Il Buddhismo, benché sia praticato nelle sue numerosissime tradizioni come una religione ed il Buddha venga ritenuto un dio, nel suo profondo è una forma superiore di psicologia.

Lo capì benissimo Jung da cui trasse le più importanti concezioni per formare la sua Psicologia Analitica. Lo Zen si distingue per la predilezione nel mettere in discussione la percezione scontata e convenzionale delle cose andando alla ricerca dell’intima essenza dell’esperienza conoscitiva che in sostanza è vuota.

Il Vuoto è un termine che designa la qualità di vedere e cogliere il dato sensibile oltre i suoi significati, capirlo e liberarne i condizionamenti, un po’ come togliere e scoprire tutti i filtri che determinano pregiudizi e credenze sui quali fondiamo il nostro senso d’identità.

Lo Zen spoglia tutto fino a trovare l’essenza ultima che è un nulla definito vuoto fertile. Hillman ha assunto questo concetto ma lo ha spostato su di un piano leggermente diverso ed euristicamente molto più comprensibile per il nostro modo di spiegarci i fenomeni. Il vuoto per Hillman è trasparenza, visione in trasparenza. Dunque la conoscenza della psiche, liberare le sue immagini dalle barriere dettate dagli stereotipi culturali e dal dominio dell’Io Erculeo diventa vedere in trasparenza le trame delle nostre inclinazioni psichiche lasciando che esse si consumino nel loro stesso manifestarsi.

L’esperienza del vuoto diventa così quello che tutti, junghiani, taoisti, zen ed archetipici, ricercano: il creativo, la creatio continua, quell’ultima condizione dove cade la struttura e permane una luminosa consapevolezza.  

Il ritorno alla Grecia

Nelle sue riflessioni sul pensiero orientale Jung espresse la perplessità che l’uomo occidentale dei suoi tempi potesse afferrare sino in fondo il senso e gli scopi dei percorsi di autorealizzazione orientali. Si auspicava invece che anche l’occidente avrebbe prima o poi creato un suo Yoga, un insieme di tecniche e metodi di realizzazione conformi alla mentalità occidentale divisa tra i poli dominanti della razionalità scientifica e della morale monoteista cristiana.

Jung non tenne conto degli effetti della globalizzazione e del mescolamento di culture che iniziò a generarsi qualche anno dopo la sua morte. Ad oggi, sono sempre presenti mode dove i rispettivi occidentali ed orientali si scimmiottano a vicenda ma tanti saperi si sono mescolati e sono stati stati integrati come la musica classica o lo stesso Yoga.

Forse, la Psicologia Analitica stessa poteva per Jung rappresentare un sistema originale di realizzazione e potremmo pensare che l’opera di Hillman abbia voluto proseguire questo intento andando a cercare un’originalità ancora più fedele alle nostre radici culturali.

Facendo tesoro dei principi appresi dalle filosofie orientali e dalla lezione di Jung, la Psicologia Archetipica vedrebbe nello scenario immaginale del mondo greco e nel rapporto con i suoi personaggi le metafore della complessità psichica capaci di liberare i processi dell’immaginazione.

Anziché trascendere l’immaginazione per risolversi nella pura spiritualità, Hillman avrebbe scelto di restare nel mondo di mezzo, nello psichico puro, rettificandone i contenuti seguendo i principi ispiratori di una certa filosofia persiana. L’attenzione allo psichico, quasi una forma di devozione, risponde ad un bisogno estetico che a mio parere Hillman riteneva essere peculiare della nostra cultura e che rende la Psicologia Archetipica artistica: la psiche si sublima nel pathos e la trascendenza si realizza nel dare una forma alla sofferenza.

Conclusioni

Quando andiamo a studiare con attenzione i rapporti tra la filosofia orientale, i suoi metodi di autorealizzazione e la Psicologia Analitica ed Archetipica scopriamo che l’Oriente è una sorgente feconda da cui sono stati e vengono continuamente attinti principi e spunti di vitale importanza.

L’opera di Hillman ha cercato di ritrovare le ispirazioni offerte dall’Oriente nell’orizzonte culturale più prossimo a noi dando nuova realtà al mondo greco ed ai suoi influssi diffusi fino al pensiero rinascimentale. La sua originalità sta nel fatto di aver impostato il discorso all’interno delle problematiche formulate dalla psicologia clinica contemporanea dando così una nuova concezione della salvezza dell’anima e della terapia distinta dagli approcci materialisti e da quelli religiosi. Una visione intermedia tipica e più affine al modo di conoscere del pensiero orientale che non a quello occidentale moderno.

P.S. CLICCA QUI per leggere “Il Kintsugi è l’arte del nulla”