Ciò che limita è ciò che è senza limite! Simone Weil

M. ha 23 anni, quattro anni fa a seguito di un incidente ha perso la vista.

La sua vita da quel giorno è cambiata per sempre, natura e imitazione si dispongono diversamente: il suo spazio visivo è polimorfo e si esprime attraverso il linguaggio dell’ombra.

M. oggi, è una studentessa di Psicologia e in questa intervista spiega come neppure le più gravi tragedie ci rendono immuni dal piacere molesto di vivere.

L’intervista

Cosa vuol dire essere non vedente nella civiltà delle immagini?

M: “Adattarsi. Questa è stata la mia parola d’ordine sin dall’inizio quando ho realizzato di aver perso qualcosa di così fondamentale come la vista. Il momento in cui ho veramente capito di doverne fare a meno non ha coinciso col momento in cui l’ho effettivamente persa. È stata una lunga e tortuosa strada in cui ho scoperto che guidare, leggere e godersi un film non sarebbero state le uniche cose a cui avrei dovuto rinunciare. Il passo successivo è stato capire che non potevo sostituire quella sensazione con altre, ma che dovevo smettere di ricercarla per iniziare davvero ad apprezzare altri sensi. Essere non vedente per me ha significato anche dovermi affidare agli altri, uscire di casa con la consapevolezza che stavo mettendo la mia salute e la mia sicurezza nelle mani di un’altra persona. Anche questo è stato un duro esercizio quotidiano ed essere diffidenti certamente non aiuta in una condizione come questa. Ha significato dover allenare la mia mente a percorrere vie alternative per godere di quello che il mondo ha da offrire. Non in un modo migliore o peggiore, ma in un altro modo.”

Cosa non vuol dire esserlo?

M: “Non significa essere finiti. Sembra una banalità e anche per me lo era quando ho perso la vista. Certo, credere che la propria esistenza sia terminata, credere che da quel momento in avanti sopravviverai e basta, è una trappola in cui è facile cadere. Io stessa ho rischiato molte volte di perdermi. Inoltre è stupido pensare che nessuno può capirti perché non vive la tua stessa situazione. Ripeto, uno degli aspetti fondamentali è fidarsi. Saper comunicare i propri bisogni e le proprie emozioni, sia per essere aiutati efficacemente, sia per permettere agli altri di comprendere in parte la tua condizione.”

Quali codice segue il linguaggio dell’ombra?

M: “Non si può parlare di un codice universale, ma se dovessi descriverlo direi che non è una forma continua. Chi vede è sempre informato su ciò che ha di fronte, persino nel momento in cui stai origliando una conversazione al di là di un muro conosci il colore del muro. Quando non possiedi questa capacità devi imparare a parlare con le ombre. La difficoltà credo, sia nel far combaciare questo linguaggio con quello degli altri e viceversa. Per questo motivo è giusto definirlo codice perché deve essere tradotto e gli stimoli che arrivano possono darti una gamma infinita di informazioni tra cui bisogna soltanto scegliere.”

In che modo ragiona il tuo senso dell’orientamento?

M: “Questo, in verità potrei definirlo tasto dolente. Quando persi la vista pensai di aver perso soltanto un senso ma non avevo considerato quello dell’orientamento. La percezione di sé nello spazio non è stata intaccata, quello che è venuto meno è la percezione dello spazio attorno a me. Sto ancora cercando un vero e proprio modo per farlo funzionare, per il momento tutto ciò che utilizzo sono i miei arti. È molto più semplice quando ho altri tipi di indicatori, principalmente sonori, come la voce di qualcuno da raggiungere o anche il suono di passi in un’altra stanza che mi aiuta a tracciare un percorso mentale da seguire. Oltre a questo, anche se vale soltanto per gli ambienti familiari, ricordo i percorsi da compiere, la presenza di ostacoli, ma richiede fatica e posso cadere in errore se qualcosa è cambiato.”

In quale relazione si trovano i vecchi e nuovi ricordi?

M: “Riesco a distinguere chiaramente i ricordi raccolti prima di perdere la vista da quelli immagazzinati di recente. Quando richiamo un vecchio ricordo ho in mente un’immagine precisa, piena dei dettagli visivi. Nei ricordi nuovi invece, ricordo molto meglio i fattori uditivi, le situazioni per come si sono svolte in prima persona, piuttosto che con il resto del mondo. I vecchi ricordi mi sono utili per acquisire nuove informazioni. Non posso nascondere una mia grande paura. Ho il timore che quando sbiadiranno i vecchi ricordi non riuscirò più ad immaginare cose che non posso vedere. Una volta mi è capitato con un colore, è stato terrificante. Non so se sia una paura fondata, ma so che quando capiterà di nuovo dovrò trovare un nuovo adattamento. La memoria è stato il primo strumento utile a sopperire la mia mancanza. Per quanto siano organizzati in maniera diversa, alcune cose le ricordo sempre allo stesso modo. Avevo un’ottima memoria fotografica e ora, quando mi leggono un testo scritto, lo immagino in maniera tale che sappia com’è strutturata la pagina. Posso dire che i vecchi ricordi sono il mio supporto più grande, anche se gli altri sensi si sono acuiti.”

Come fa la tua mente a conoscere qualcosa del mondo?

M: “È un processo che impiega davvero molte energie, che coinvolge non soltanto gli altri sensi, ma prima di tutto l’immaginazione: la capacità di creare e interpretare simboli. Prima parlavamo di linguaggio dell’ombra e a volte sembra che il buio riesca a parlarti. Un singolo suono può comunicarti un’intera immagine che va formandosi nella mia mente e che si arricchisce di dettagli. Lo sforzo consiste nel riuscire ad interpretare i segnali che arrivano e riuscire a ricordarli tutti nel loro insieme. Spesso per conoscere qualcosa ho bisogno di una descrizione, una sorta di inquadratura cinematografica in cui collocare i singoli elementi. Le mie conoscenze sono “visive”, non tanto nella maniera che ho di immagazzinarle, ma nel modo in cui le apprendo.”

Nelle relazioni com’è non fare affidamento sulla prima impressione, quella estetica e superficiale?

M: “Sembra strano ma anche io posso giudicare la prima impressione. Un odore, una voce o un tocco sono quelle che io considero le mie nuove “prime impressioni”. Non è un qualcosa che vivo negativamente. Ho la possibilità di soffermarmi su quegli aspetti che vengono notati soltanto dopo. Credo che la superficie spesso possa confondere e distogliere l’attenzione su quello che c’è dietro il velo. Ovviamente si tratta della mia visione personale. Ricordo l’importanza dell’estetica,in grado di fornire informazioni preziose sulla persona che si ha di fronte ma non potendo fare affidamento su questa ho maggiore possibilità di concentrarmi su altri.”

Come vivi l’arte nella tua intimità?

M: “Una componente necessaria dell’arte è l’astrazione e oggi è anche l’aspetto fondamentale del mio percepire. Ad un certo punto l’immaginazione può essere in grado di nutrire sé stessa. Ho sempre fruito di qualunque forma d’arte mi fosse possibile e continuerò a farlo come posso. Mi aiuta a creare nuove immagini, a non dimenticare quelle vecchie e ad avere nuovi modi per interpretarle. L’Arte è essenziale e non so come farei se non avessi la possibilità di accrescere la mia ispirazione.”

In che modo immagini il tuo futuro?

M: “Forse questa è la domanda più difficile a cui rispondere. Una parte di me, meno realista, spera che questa mia condizione un giorno possa cambiare, che io possa dovermi trovare nuovamente a riorganizzare la mia vita per un altro cambiamento radicale. L’altra parte mi porta semplicemente a credere che riuscirò nei miei obiettivi. Mi suggerisce di seguire il percorso di studi per poi aiutare le persone che si sono ritrovate nella mia stessa situazione. Non mi va di pensare che questa esperienza possa essere fine a sé stessa e quel che vorrei è metterla al servizio di chi potrà trarne giovamento.”

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Info sull'autore

Andrea Orza

Giornalista in erba e Psicologa in formazione

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