Un elefante che muore fa poca notizia. In Italia non siamo abituati ad avere a che fare con gli elefanti. Li possiamo vedere negli zoo o nei bioparchi. Li possiamo trovare sfruttati nei circo che usano ancora gli animali. Ma non li vediamo nelle campagne del nostro Paese. Non li vediamo in branchi o proteggere i loro cuccioli. Gli elefanti non appartengono direttamente alla nostra cultura. Ma esistono e hanno parecchio in comune con noi. Perciò un elefante che muore in modo crudele e spietato non diventa una notizia di prima pagina. Diventa una notizia che può colpirci, ma di sfuggita. Eppure, nella notizia di una elefantessa che muore in modo crudele e spietato possiamo trovare simboli e significati psicologici tanto forti da riuscire a scuotere corde profonde di noi.

Domande psicologiche sulla morte di un elefante

Dove ballano gli elefanti, le formiche stanno alla larga. (Proverbio africano)

Ci sono notizie che restano sottotraccia. Esistono avvenimenti che per tanti motivi non arrivano al centro delle cronache. I sistemi di filtro delle informazioni hanno la capacità di dare un peso diverso a ogni fatto che accade. E ciascuno di noi, volutamente o meno, usa il filtro delle informazioni mediatiche per formarsi una rappresentazione del mondo che ci circonda. Le informazioni veicolate dai media ci condizionano, soprattutto in un mondo iperconnesso e sovraccarico di notizie. Le caratteristiche della comunicazione globale in diretta sono molteplici. Se da un lato ci permette di entrare in connessione con ogni Paese sulla faccia della Terra, dall’altro la comunicazione globale non è riuscita ancora ad abbattere i confini territoriali e la loro percezione. Perciò la notizia di una elefantessa che muore dopo aver mangiato un ananas riempito di petardi è una notizia che avvertiamo come lontana, che ha pochissimo a che fare con noi.

Ciascuno di noi è alle prese con difficoltà concrete. Abbiamo modificato il nostro stile di vita. Una crisi economica massiccia e diffusa ha soltanto iniziato a minacciare i suoi effetti. Scuole e università sono avvolte nel limbo dell’indecisione fra aprire e riaprire. E in questo contesto ci stiamo ri-abituando a sentirci parte di comunità ristrette. Questi mesi ci hanno riportato all’appartenenza alle micro-comunità. Quella dei nuclei conviventi, dei congiunti, dei confini del proprio Comune e della propria Regione. Comunità che sentono distanti se non opposte le realtà più ampie, come l’Unione Europea e l’Organizzazione delle Nazioni Unite. A questo punto, perché dovremmo notare un elefante ucciso dall’altra parte del globo? Anche qui siamo abituati alla caccia, agli allevamenti intensivi di animali. Siamo perfino abituati a chi caccia e pesca con sistemi vietati e che provocano estrema sofferenza agli animali. Quindi perché interessarci di una notizia su un animale in India? Perché è importante in una lettura psicologica?

Gli elefanti in psicologia

Il gracidare delle rane non impedisce all’elefante di bere. (Proverbio africano)

L’elefante è un simbolo di saggezza. Rappresenta una saggezza antica, radicata. Quella saggezza che possiamo immaginare raccontata dai nonni nei loro racconti. La saggezza delle generazioni che hanno vissuto vite precedenti la nostra. L’elefante è il saggio che sa che prima o poi dopo la pioggia torna il sole. La saggezza della formica che si prepara all’inverno mentre la cicala non pensa al proprio domani. Al fianco della saggezza, l’elefante custodisce un altro significato: la forza non aggressiva. La forza di chi costruisce il proprio futuro, anche se con un incedere lento. L’elefante che sa vivere in comunità, che difende gli anelli più fragili della catena del branco. L’elefante con la sua marcia rumorosa e lenta, ma sicura e profonda.

In tante zone del nostro pianeta, la convivenza tra uomini e animali si sta rivelando quasi impossibile. In diverse zone d’Italia, ad esempio, i cinghiali arrivano a vivere le città in cerca di cibo. Animali che non hanno ovviamente il loro habitat in un centro urbano, si trovano a vagare tra rifiuti e scarti, spinti dalla fame e dall’istinto di sopravvivenza. In India sta succedendo lo stesso agli elefanti. Animali abituati a vivere liberi nelle foreste. Animali abituati a difendersi dagli umani, che ora si trovano spinti a scavalcare i confini del loro ambiente naturale in cerca di cibo. E la storia dell’elefantessa morta con un ananas imbottito di petardi è emblematica. Un’elefantessa incinta non si sarebbe mai potuta allontanare dal branco, a meno che non fosse stata costretta se non da una necessità impellente e ineluttabile. E ha trovato la morte, crudele, nella reazione dell’uomo. Ognuno di noi ha l’istinto di protezione verso i propri cari e, per diffusione, verso ciò che rappresenta il benessere individuale e della propria comunità. Non troverete nessun contadino (amatoriale o di professione) contento se i cinghiali arrivano nell’orto a mangiare o distruggere un raccolto. Non troverete nessun padrone di casa contento di avere ladri che entrano a rubare. Ciò che può essere illuminante in una lettura psicologica di questi fenomeni è la reazione che l’uomo mette in atto davanti a questo tipo di minacce.

Chiamare le forze dell’ordine di fronte a un’infrazione di domicilio è una reazione ritenuta più che corretta dalla stragrande maggioranza di noi. In pochi ci metteremmo a pensare al ladro che forse incorrerà nel carcere come a una vittima di punizione severa.
Nessuno può accusare un contadino di crudeltà se pianta uno spaventapasseri per provare ad allontanare gli uccelli dal proprio raccolto.

La Legge acconsente anche alla caccia, purché siano rispettati dei vincoli di legittimità. E molti di noi mangiamo carne proveniente da allevamenti intensivi.

Cosa cambia questo rispetto alla morte dell’elefantessa indiana?

C’è l’inganno dell’uomo a fare la differenza. C’è la crudeltà della vendetta percepita. C’è la noncuranza, unita all’egoismo. C’è una deriva della legge del più forte. E c’è il significato psicologico dell’evento.

Conclusioni

L’elefanti han tutte queste generosità e più senno; combatton con arte, imparan la lingua, fan patti con noi, conosceno la colpa, e si lavano dopo il coito, s’inginocchiano alla Luna, come gli antichi Greci, la riveriscono per lo beneficio che ricevono la notte da lei. (Tommaso Campanella)

Far esplodere la bocca di un elefante con dei petardi per difendere un raccolto, a livello simbolico, è un atto di prepotenza del profitto sul passato. È un gesto culturale di crisi. È un’esplosione di rabbia disumana. Chiunque di noi ha il naturale istinto di protezione. Ma se questo istinto si trasforma in aggressività incontrollata, in crudeltà sproporzionata, beh, abbiamo realtà psicologiche a cui prestare attenzione. È l’ennesimo campanello d’allarme per la capacità dell’umanità (intesa come specie) per restare al mondo e convivere con gli altri esseri viventi. È un campanello d’allarme per l’istinto a combattere un simbolo di forza non aggressiva e di saggezza antica, con la forza crudele di un inganno violento. È il segnale che nella nostra psiche c’è perennemente una lotta tra tanti lati di noi, luminosi e oscuri. In queste sfaccettature deve trovare spazio il nostro desiderio di essere e resistere come umani.

P.S. CLICCA QUI per leggere Le specie a rischio di estinzione

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Info sull'autore

Teresa Di Matteo

Psicologa, Psicoterapeuta in formazione

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