La violenza dei vigoressici

“il nostro odio per la guerra ci fa usare violenza contro la guerra stessa” (J. Hillman,  Mars)

Partiamo da una premessa, ossia dal fatto che non c’è ancora una condanna e che la giustizia deve fare il suo corso. Ma a noi qui, come sempre, interessa una visione immaginale di quella che è la narrazione collettiva in un dato momento. Si perché non è nostro compito valutare gli eventi reali, quanto analizzare i riverberi psichici che hanno su chi osserva. Ma, per restare in tema, veniamo alle mani…

Le mani parlano e noi, in Italia, lo sappiamo bene. Si, perché la gestualità colma le lacune del nostro vocabolario. Insomma la tesi è semplice, per tenere le mani in tasca bisogna disporre di un vocabolario, di parole che ci permettano di esprimere quello che le mani non sanno dire. Allora è semplice teorema quello secondo cui tutti i “Willy” che incontreremo per strada avranno vita dura o, ahimè, non avranno vita se le parole non saranno disponibili. Ecco la cura, e la psicologia ha iniziato nel ‘900 a intuire che le parole curano. È poi Hillman che ci ha suggerito che le parole sono persone.

I’aggressore che è in noi

Abbiamo individuato un possibile rappresentante dell’aggressione marziale. Ma cerchiamo di non fare i negazionisti. Quante volte il fuoco della rabbia ci ha posseduto. E quante volte ci siamo ritrovati in fraterne colluttazioni, in lanci di piatti coniugali, in cellulari sbattuti sul muro in faccia a fidanzati imbecilli? Insomma ognuno di noi conosce quel confine oltre il quale i nostri nerboruti fanciulli sembra abbiano voluto erigere la loro casa. È la possessione di Marte che si placa solo con l’amore di Afrodite. Allora sentimenti e parole sembrano essere i grandi assenti nei fatti angosciosi di Colleferro.

Linguaggio dei segni

La violenza è come il linguaggio dei segni. Le mani si muovono e colpiscono l’altro. Ogni colpo, ogni costola fratturata, ogni sconquasso cardiaco potrebbe essere tradotto con parole altrimenti inascoltabili. Ma non voglio vedere nei cittadini meno onorevoli che abbiamo oggi, una volontà pianificata di tacere per picchiare, piuttosto penso che in questa vicenda non fossero proprio disponibili e a disposizione le parole e, al tempo stesso, le emozioni premevano. Questo è il mix letale che caratterizza le anime di chi mena le mani. E mentre ognuno di noi quando ha messo il piedino poco oltre quel confine, come a saggiare la temperatura dell’acqua, si è poi fermato e, grazie alla bellezza delle relazioni, ha verbalizzato, ha tradotto in parole quel segno sul muro lasciato dal cellulare, a Colleferro non è stato fatto questo esercizio di traduzione.

Non sappiamo se siano i “bianchi” che uccidono il “nero

Non sappiamo se sia andata così, ma sembra l’ennesima riedizione di una trama che appartiene al nostro tempo. Il razzismo giocato dalla politica, neri contro bianchi, come una partita a scacchi, non è nient’altro che la manifestazione di un conflitto interno che riguarda ogni singolo individuo e noi come genere umano da sempre. Ognuno si terrorizza di fronte a ciò che gli è estraneo, il “nero”. Perché quella estraneità ci obbliga a rivedere le nostre identità. Allora se dobbiamo pensare che non siamo chi pensavamo di essere potremmo sentirci sconvolti. Per questo non sapendo dare un nome e una voce a quello sconvolgimento, tendiamo a usare i gesti, fin anche quelli che ledono e uccidono.

Alfabetizzazione

Che le parole sono persone, come vi dicevo citando Hillman, significa che ogni fonema, ogni sillaba, ogni parola, contiene in sé il potere di attivare e disattivare emozioni. Ogni parola è come un invocazione di un dio e gli dèi dispensano sempre buoni consigli. L’assenza di parole invece obbliga all’agito. Eccoci arrivati al dunque. Ognuno di noi ha impulsi e poi li agisce. Lo spazio che c’è, o che riusciamo a generare, tra un impulso e l’azione corrispondente è la casa di psiche. Il tempo che intercorre tra l’impulso e l’azione è un tempo in cui può abitare il pensiero, la traduzione, le parole. Ma questo spazio non è una conquista precoce né semplice. Anzi è piuttosto tardiva. Quando da piccoli diciamo “mamma cacca”, l’impulso (la cacca) e la “parola” coesistono e sono contemporanei. Quanta fatica per mettere del tempo tra quel “mamma” e quel “cacca”, un tempo utile per andare in bagno. Ecco la faticosa condizione degli aggressori, quella di un’assenza di spazio tra due parole tanto belle.

Vigoressia e vocabolario

Il corpo parla quando non abbiamo trovato le parole per esprimere cosa ci accade dentro. La somatizzazione, gli herpes, le alopecie, le febbri pre esami… insomma il corpo supplisce alla mancanza di parole. E la anoressia trova certamente in questo aspetto il suo terreno di coltura. Parimenti la vigoressia, ossia quel maniacale attaccamento tipicamente maschile al nerbo muscoloso su cui stampigliare disegni di cui il signor Google fornisce significati spesso errati. Eccoli gli aggressori con le loro armature di muscoli gonfi, come se trattenessero tutte le parole del mondo. E dire che aggredire significa “andare verso”.

Sedare risse

E non posso non raccontare di quante piccole risse ho fatto fino alla quinta elementare. Poi le parole mi sono venute a trovare e con loro la paura e la vigliaccheria. Insomma mi son trovato per indole e per lavoro a sedare risse.

Ho evitato gli sguardi dei sordomuti emotivi della mia città che erano terrorizzati dal mondo e lo aggredivano se qualcuno li fissava per più di un secondo. Ho sedato risse per strada frapponendomi e nel mio lavoro opponendomi fisicamente. Ma mai e poi mai mi sono dimenticato di parlare mentre lo facevo.

Ho capito una cosa, infatti, che fornendo parole do il mio personale contributo a che il nero e l’inaccettabile vengano accolti dentro di noi e fra di noi. È un piccolo contributo ma di più non ho. E la psicoterapia questo merito lo ha, ossia quello di essere un allevamento di parole che possano guidare le azioni. E loro, le parole, quando crescono, ci sorprendono fino a farci sgranare gli occhi. Gli stessi occhi che, sul volto dei presunti aggressori e nelle loro pose social, restano tagliati e chiusi. Bisogna che impariamo a tradurre in parole lo stupore che anima i nostri occhi, così potremmo ascoltarlo. I poeti non fanno a botte.

P.S. CLICCA QUI per leggere WILLY: la violenza come atto di ignoranza

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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