Fobia scolare e gravidanza

Il tempo passa rapidamente durante una gravidanza. O meglio passa rapidamente per i padri mentre per le madri è interminabile. Sorridi, aggrotti la fronte, tiri i muscoli del collo formando un trapezio con le labbra, poi la pelle si fa liscia come quello del nascituro, sorridi, di nuovo, tic all’occhio sinistro, sorridi, tic all’occhio destro, ti commuovi, guardi i cartoni animati, insonnia, ipersonnia, sorridi, piangi. I giorni si succedono e tu simpatizzi con tutta questa sequela di reazioni del tutto autonome. Ti senti posseduto. E questo mi divertiva.

Quando Francesca mi disse che non aveva più voglia di portare avanti la gravidanza stentai a capire. Il timore che non volesse il bambino si dileguò subito. Lei voleva a tutti costi il bambino. Quello che non voleva era la gravidanza. Erano quelle smorfie, il corpo posseduto, le emozioni autonome, il tempo da aspettare, il rimanere per forza seduta, come sul banco di scuola, ad ascoltare il corpo, come fosse una maestra diligente, quando alla fine lei si sentiva già pronta. Il parto è un dolore sopportabile solo e nella misura in cui ti solleva dall’immensa rottura di maroni del pancione. Almeno questo mi sembra di aver capito. Mi sembra di aver capito che il parto non è un atto d’amore ma un moto di odio, quell’odio che ti spinge ad espellere, a buttare nell’arena del mondo un figlio mettendolo decisamente in pericolo. Eppure troppo amore spingerebbe a non espellere e a prolungare la gravidanza mettendo a rischio della vita entrambi. Eccoli di nuovo, gli opposti che si incontrano. Ma poco prima di questo incontro c’è sempre la voglia di mollare tutto e Francesca non fece eccezione.

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Non vado più a scuola!

La mattina che decisi di non andare più a scuola, a metà del 1984, dal basso dei miei 9 anni, lo avvertii come un’intrusione. Un ladro si era intrufolato in casa e voleva rubarmi tutti i miei beni, prima fra tutti la serenità. E quanti ladri ho poi sognato tutte le volte che ci sono state svolte epocali nella mia vita e che mi sono costate tanta serenità. Ermeticamente si presentò quella decisione, facendomi sentire uno scarafaggio e costringendomi, kafkianamente, a rigirarmi, dare le spalle alla scuola e tornare a casa. Erano gli anni in cui un bambino andava a scuola a piedi, e da solo, già a partire dalla terza elementare. Mi continuo a chiedere se ci sono oggi più maniaci che rubano i bambini a genitori troppo fiduciosi nel mondo, oppure se c’erano allora troppi pochi maniaci e genitori piuttosto sfiduciati.

Tanto è. Camminavo, solo, in direzione della scuola. Sfiorando con la spalla destra il palazzo in cui c’era la sede della Banca di Italia. L’animo tronfio e inorgoglito da quella autonomia oggi impensabile. Sentivo di trovarmi su un cuscino d’aria su cui i piedi, alati come quelli di Hermes, preannunciavano quello che ai miei occhi risultò essere l’infausto evento centrale della mia vita. Si unirono i puntini e si presentò a me, prepotente, l’immagine chiara del fatto che non sarei più andato a scuola. Capiamoci. Sapevo di dover andare e, per di più, sentivo di voler andare. Ma ormai il quadro era chiaro… non potevo e non sarei andato.

Mi girai e, nei pochi minuti che mi separavano da casa, cercai di convincermi. Era chiaro che dovevo andare. Le scuole elementari sono il luogo in cui si simpatizza con gli elementi di base. Sono le scuole alchemiche per eccellenza. Ma io mi sentivo di non riuscire. Oggi la avrebbero chiamata fobia scolare, un disturbo in cui il livello di ansia e di paura ad andare e restare a scuola sono tali da compromettere in modo significativo una regolare frequenza scolastica con conseguenze a breve e lungo termine. Ma questa definizione esce fuori se metti insieme fobia scolare adolescenza in una ricerca su google, io invece ero sulla soglia dei 9 anni e, per quanto mi piacesse l’idea di essere precoce, ero molto di più terrorizzato dall’idea di essere patologico.

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Suonai alla porta e mia madre fece la stessa faccia che fa un carabiniere che non ha capito una barzelletta, ostenta presenza di sé e scorre con gli occhi se c’è qualcuno che possa dare suggerimenti. Non trovandone alleggerì. Un abbraccio algido tradiva la fretta di andare a lavoro, per questo cercai di accontentarla. Ripartii alla volta della scuola con mio zio di soli 16 anni più grande. Ma a nulla valse il suo tentativo di accompagnarmi in auto fin davanti al cancello della scuola. Scesi dalla macchina, attraversai la strada, giunto che ero a metà delle strisce pedonali mi girai e risalii in auto non più di 12 secondi dopo, eppure mi sembrò fosse passato almeno un intero minuto intero. Il punto è che sapevo che sarebbe andata così già nel momento in cui questa proposta di mia madre, l’andare a scuola con lo zio, mi venne fatta sulla porta di casa. Del resto se hai deciso una cosa quella è. E io avevo deciso di non andare, non potevo assolutamente farlo. Mia madre invece sperava che mi passasse, sperava che prendendo tempo avrebbe potuto evitare di ammettere che non aveva capito la barzelletta. E io andai, pazientemente con mio zio, da una parte speravo che avesse ragione, dall’altra sapevo che aveva torto e cercavo di proteggerla da questa consapevolezza.

Scesi dall’auto e vi risalii poco dopo. “Non ce la faccio” e anche mio zio non ce la faceva. Mi riportò a casa. Decisa, mia madre mi riportò a scuola…

A scuola con gli psicologi

Mia nonna ci mise poco a invocare la psicologia e gli psicologi. Da brava consumatrice di benzodiazepine aveva imparato a chiedere aiuto a elementi esterni da se. Avrebbe aperto un gruppo parrocchiale chiamandolo qualcosa del tipo “fobia scolare forum” oppure “fobia scolare come risolverla”; mia nonna ha sempre avuto una fiducia cosmica nel potere della collettività. Ma mia madre non credeva negli psicologi né, tantomeno, nella collettività, per questo io sono diventato uno psicologo. Si devo dire che lo devo a lei, il mio bisogno di convincerla è stato tra gli elementi più motivanti della mia vita e, ancor più, è stato motivante convincere me. Io effettivamente oggi mi sono convinto e credo negli psicologi, mia madre ancora no però, comica e tragica, oggi sembra credere in me. Insomma penso di averla fregata.

Quando mi riportò a scuola lo fece per evitarli, gli psicologi intendo, e ci riuscì. Giunto che ero a scuola non volevo più andar via ma, mentre mamma parlava con la Maestra con la quale iniziò a pianificare una strategia per alleggerire il mio animo facendomi smettere il “tempo pieno”, io, che con la coda dell’orecchio avevo ascoltato tutto, continuai a fingere incertezza e timore al fine di poter beneficiare di quell’indulto scolastico. Da quel giorno andai a scuola solo fino all’ora di pranzo e iniziai a comprendere che la psicologia è quella branca della letteratura che da un nome a emozioni e fobie e poi trova terapie. Insomma la psicologia è la disciplina che prevede di mettere la parola “fobia” affiancata ad ogni lemma della lingua italiana al fine di vendere prodotti il cui nome è il semplice affiancare la parola “terapia” a quegli stessi lemmi.

Fobia scolare – Conclusioni

Oggi si cerca la guarigione per la fobia scolare ma ci si confonde. La mia non era tanto la paura della scuola, appena vi tornai non volevo venir via. Piuttosto la fobia è di quel luogo, la scuola, che aveva come scopo il rendermi autonomo, e capace di lasciare la casa in cui ero nato.

Insomma avvertii a 9 anni che avrei tradito i luoghi delle mie origini e intuii che la scuola era la principale complice della mia fuga. Oggi non invoco la guarigione dalla fobia scolare, sarebbe come augurare a un paziente di rimanere a casa per tutta la vita per evitare raffreddori. Oggi capisco che dovevo fare la pace con quei luoghi che nutrivano le parti di me che mi rendevano emancipato. Uno studente deve poter prendere contatto con le spinte aggressive nei confronti dei genitori, deve imparare a percepirle come naturali e salutari, deve accogliere l’idea del lasciare il nido, così non avrà più paura dei Maestri ne tantomeno dei buoni risultati. Oggi, leggendo Campbell, comprendo pienamente il senso della frase “La grotta dove hai paura di entrare nasconde il tesoro che cerchi”.

Con Francesca che voleva una sorta di indulto alla sua gravidanza, feci la medesima cosa. Finsi di non capire, continuai a portarla a scuola, cercai di alleggerire ma in cuor mio sapevo perfettamente che quello che l’attendeva non le sarebbe piaciuto. Sapevo che non avrei mai chiesto di fare a cambio. Sapevo che avrebbe sofferto, come mia madre sapeva cosa avrei passato nel vivere ma, come mia madre, finsi spudoratamente, anche perché sapevo ancor di più che quella scuola, il parto e la maternità, la avrebbe definitivamente emancipata da me.

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Info sull'autore

Luca Urbano Blasetti

Psicologo e Psicoterapeuta; Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica sul tema Creatività e sue componenti dinamiche; Responsabile del Centro Emmanuel per Tossicodipendenti di Rieti presso cui cura diversi progetti regionali; autore di diverse pubblicazioni psicologiche; lavora nel suo studio.

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